CANICATTI' TRA MITOLOGIA E ARCHEOLOGIA
di Diego Lodato
Corconiana e Mozio
L'autore del Lexicon Topographicum Siculum ritieneche Canicattì non sia dì origine recente e afferma che
il luogo è stato abitato sìa ai tempi degli Etnici che
dei Cristiani: e porta come prova i resti archeologici
dell'agro canicattinese. Egli scrive che a Vitosoldano
capita di frequente agli agricoltori di trovare ruderi
di antiche abitazioni, resti di colonne, monete di vario
metallo, specie consolari, e monumenti vari. E dice anche
che i terreni della Dammisa, a tre miglia verso oriente,
nonché di Palco e Casalotti, a un mìglio verso settentrione,
presentano ugualmente vetusti avanzi di edifìzi:
«ex quìbus - quindi conclude - et proximum Candicattinum
recentis originis non esse arguimus» , cioè «dal che
ricaviamo non essere di fresca origine la vicina Canicattì».
Già l'abate Rocco Pirro nella sua Sicilia Sacra, pubblicatapiù di un secolo prima del Lexicon di Vito Amico, ossia nella
prima metà del Seicento, aveva definito Canicattì «oppidulum
antiquum», «cittadina antica». L'Aurea Fenice, manoscritto
della prima metà del Seicento del cappuccino fra Salvatore da
Naro, ne pone l'esistenza al tempo dei Sicani, quando questi,
cacciati dai Siculi verso la Sicilia occidentale, si stanziarono
in vari territori, tra cui «Corconiana Castello, oggi Cannigattì»,
precisa lo storico narese, il quale poi, in altro passo, più esplìcitamente
afferma «Il Castello di Cannigattì prima si chiamò Corconiana, castel sicano,
sopra il nostro fìume Agragante».
Che Corconiana corrisponda a Canicattì lo si puòrilevare anche dall'Itinerarium Antonini, che la colloca
a dodici miglia da Calloniana e a tredici da Agrigento.
Per l'identificazione con Canicattì tali distanze potrebbero
sembrare insufficienti, ma esse vanno calcolate in linea
retta, come sottolinea il Cluverio nella sua Sicilia Antiqua
a proposito della misura di novantuno miglia che l'Itinerarium riporta
come distanza tra Agrigento e Catania: «... numerus iste millium XCI
spatio inter Agrigentum et Catanam probe convenit, si ad rectam lineam
iter dirigatur» («...codesta cifra dì novantuno miglia si adatta bene,
se il percorso lo si traccia in linea retta»). E' poi lo stesso
Cluverio a far ritenere che Corconiana fosse Canicattì, quando scrive
che esso sorgeva «circa sinistram... ripam Acragantis fluvii, quem vulgo nunc
vocari... Fiume di Naro». cioè sulla riva sinistra del fiume Acragante
che dal popolo e ora chiamato fiume Naro.
Sul fiume Naro, però, il Cluverio fa della confusione,chia
mandolo nel contempo «fiume di Girgenti, fiume di San Biagio,
fiume di Naro». Fa della confusione pure Giovanni Andrea
Massa nella Sicilia in prospettiva, dove scrive: «Girgenti,
con altro nome Fiume Naro... Si forma con l'acque di due
fiumi, Drago e San Biagio, le quali, dove si congiungono, lasciati
li nomi loro proprii, n'acquistano un solo comune. e diconsi Fiume d
i Girgenti». L'autore dell'Aurea Fenice, invece, afferma in modo deciso:
«Il nostro fiume Agragas, seu Agragante, è oggi chiamato il fiume
di Naro, solo, e distinto d'ogni altro fiume»:
e accusa di sommo abbaglio il Fazello e tutti gli altri che
seguono le sue orme: «Tutti - dice - hanno sbagliato di grosso,
mentre non hanno consultato gli antichi scrittori». E cita, tra gli altri,
Polibio, Tucidìde, Strabone, Plinio e Tolomeo, i quali dichiarano che il
fiume Agragante, dal quale prese il nome la dorica Agrigento,
sbocca a tre miglia di distanza da questa città a ponente, cioè ha la posizione
dei fiume Naro. Il Drago, invece, scorre ad oriente
e ciò, pertanto lo fa corrispondere all'lpsas.
Il Naro era allora un fiume le cui acque, provenientidalle due copiose fonti di Gulfi e Cuba e incrementate
nel loro corso da altre sorgenti, potevano bere, come
scrive il Nicastro, gli uomini e gli animali. Esso dava
origine, tra Canicattì e la città di Naro, a ben quindici
mulini, come attestano gli Annali di fra Saverio Cappuccino:
«Vedendo i nostri, e quelli di Canicattì la sufficienzadelle sue acque ci hanno fabbricato nella sua rivera
interpellatamente quindici molini.
quasi un miglio più, o meno distanti l'uno dall'altro, nei
quali si tritola il grano, e altro genere».
Dalla parte di Canicattì si susseguivano il Mulino Russi,
il Mulino Cannarozzo, il Molinello,
il Mulino Vecchio, il Mulino Nuovo e il Mulino dello Stretto.
Per il Trasselli Canicattì esisteva già al tempo deiCartaginesi e di Dionisio di Siracusa. Egli difatti
scrive a proposito della lìcentia populandi concessa
alla baronia di Canicattì, cioè della licenza di popolare
territorio, cingendolo di mura e torri merlate: «La scelta
era felicissima, se dì scelta possiamo parlare: il
territorio confinava con quello di Mussomeli ed era
stato abitato fin dal tempo di Dionisio di Siracusa e
dei Cartaginesi, stando alle monete che oggi vi si trovano».
Di «una civiltà italiana anteriore alla greca», esistente
a Canicattì, hanno parlato gli esperti in seguito al
ritrovamento di «un sepolcro del periodo siculo
(VI - V secolo avanti Cristo) di forma sferica contenente
avanzi umani pietrificati e due vasi di argilla frantumati
di grande interesse storico» nel corso degli scavi
effettuati nel 1921 nel giardino interno della Matrice.
A Vitosoldano era fiorente nel V secolo a.C. la fortezzaMozio, fondata dagli acragantini, a comune difesa dei Sicani
ormai ellenizzati. Al riguardi narra Diodoro che nel 451 a.C.
Ducezio capo dei Siculi, marciò contro di essa dalla Sicilia
orientale e la cinse d'assedio, mentre era presidiata dagli
acragantini. Egli riuscì ad espugnarla, battendo anche i
siracusani, accorsi in sua difesa. Ma questi nell'estate del
l'anno seguente riuscirono, con un nuovo generale, a battere
le truppe di Ducezio, mentre gli acragantini liberavano Mozio,
ancora occupala da forze duceziane. Sui liberatori l'autore
degli Annali della Fulgentissima Città dì Naro precìsa:
«Nell'Archivio di questo antichissimo Convento di S. Agostino,
trovo in un manuscritto anonimo espressata questa sentenza, e
leggo, che coloro i quali acquistarono il Castello di Mozio
furono gli Acragantini, cioè l'abitatori della Regione Acragantina,
chiamata da Diodoro, e non gli Agrigentini abitatori della Cìttà di Girgenti.
Da Mozio divenuta in seguito cittadella romano-bizantina,prima che assumesse il nome arabo di Vìtosoldano, proviene,
secondo quanto racconta il Lexicon, la statua della Madonna
che si venera nella cappella di Maria SS. delle Grazie alla
Matrice. Vi leggiamo infatti: «In Vitosoldano dudum Deiparae
marmoreum signum detexterunt, atque in opidum II.pass: M inde
dissitum retulere», vale a dire: «A Vitosoldano trovarono molto
tempo fa una statua della Madonna e la trasportarono nella città
distante due miglia». La sua posizione strategica, come punto di c
ontrollo di tutto il traffico viario che si svolgeva da Agrigcnto a Catania,
vi avrà fatto installare quel Vico Pretorio di cui parla Ottavio
Gaetani come patria di S. Grcgorio, nato nel 559 da genitori
molto ricchi e consacrato vescovo di Agrigento nel 590. Il luogo,
considerato il suo passalo di fortezza, si prestava bene
all'insediamento di una stazione militare.
L'invasione araba e Vitosoldano tra leggenda e realtàQuando gli Arabi nel mese di giugno dell'anno 827
sbarcarono in Sicilia, occuparono in breve tempo e
distrussero Agrigento, e poi dilagarono nel territorio
di Canicattì, aggredendo e radendo al suolo la fiorente
città romano-bizantina che sorgeva nell'ampia dislesa di
Vìtosoldano, l'antica Mozio. Gli abitanti cercarono scampo
nella vicina Corconiana, che i conquistatori ribattezzarono,
come erano soliti fare con lutti i luoghi conquistati,
con termini della loro lingua, dando il nome Al Qattà,
tagliatori di pietre, alla zona alta, abitata dai lavoratori
delle cave, e Khandaq-at-tin, fossato di argilla, alla parte
bassa, dove in un ampio alveo argilloso scorreva uno dei due
rami sorgentizi del fiume Naro, quello alimentato dalla
fonte di Cuba. Il geografo arabo "Ibn'ldris, comunemente
chiamato dagli storici Edrisi, parla di Al Qattà come di
luogo elevato, sulla cima di un monte, abitato da gente
industriosa, che dalla fertile terra ricavava abbondanti
prodotti e condizioni di agiatezza. Da Khandaq-at-tin,
che si riscontra in carte geografiche del periodo arabo,
più che da Al Qattà, che si tova invece nel Libro di Ruggero
dell'Edrisi, è derivato l'attuale nome della città. L'Amari
preferisce quest'ultimo etimo, però, per approssimarsi al
suono di Canicattì, e costretto a premettervi la voce 'ayn
(fonte), trasformandolo in 'Ayn-al-qattà con il significato
di "fonte del tagliatore di pietre". Al riguardo egli precisa:
«Basta premettere a questo nome la voce 'ayn fonte per
approssimarsi al suono di Canicatti». Dunque, con l'aggiunta
di ayn e la trasformazione della a finale in i, come spiega il
Raccuglia, abbiamo Ayn-al-qattì, cioè "fonte del tagliatore di pietre",
perchè il paese era sorto presso cave e fontane. Della figura del
sultano conquistatore, caduto in odio della gente per la sua ferocia,
si è impadronita la leggenda, assimilandolo a Falaride, il celebre
tiranno di Agrigento, che si divertiva a suppliziare Ì sudditi,
richiudendoli nel ventre di un bue di bronzo arroventato.
Si dice che il terribile Vito Soldano, che aveva imposto il suo
nome all'intera contrada, facesse Io stesso con i vinti, estraendone
a sorte uno al giorno.
E racconta ancora la leggenda che, quando venne estratto ilnome dì una ragazza, l'anziano padre corse disperato in
Francia, alla corte di Carlo Magno, a chiedere giustizia.
Ma è evidente la contusione che fa la leggenda, perché
Carlo Magno era morto da tredici anni, quando avvenne la
conquista della Sicilia da parte degli Arabi. Raramente
mitologia e storia vanno d'accordo. A far giustizia sarebbe
stato, secondo la leggenda, il mitico Orlando, appositamente
mandato a Vitosoldano dal fondatore del Sacro Romano Impero.
Egli avrebbe battuto i Saraceni e avrebbe infeudato a quel
vecchio padre i territori liberati.
E ciò è emblematico, perchè fa pensare alla donazione chedei domini dell'emiro Melciabile Mulè fece il Conte Ruggero
al cugino Salvatore Palmeri. Anche dietro la mitologia di Orlando
e delle sue gesta appare evidente la figura dello stesso Conte Ruggero.
Pure emblematico è quanto si racconta del tesoro del sultano.
L'allusione all'immensa ricchezza prodotta dagli Arabi con il rilanciodell'agricoltura e del commercio è chiara. E quel che si narra della
risposta data un giorno dal cosiddetto Gran Turco (è palese la
confusione popolare tra arabi e turchi) a chi era andato a trovarlo:
«Se non si trova il tesoro di Vilosoldano, povera Sicilia!», ha pure u
n suo recondito significato, poiché pare che con ciò si voglia affidare
il prospero destino dell'isola allo sviluppo agricolo.
Sul tesoro di Vilosoldano nascosto nella misteriosa grotta si è sbizzarritala leggenda. «Ma - osserva il Sacheli - sinora nessuno è riuscito.
Ora per l'inavvedutezza di chi non ha obbedito ai comandi degli spiritie non è andato solo, onde trovava un cullarini chinu di scorci di vavaluci;
ora la paura ha fatto retrocedere atterrito l'audace; ora esso e morto nella
profondità della grotta; ora è riuscito appena a trovare la via del ritorno per
narrare l'agghiacciante suono delle catene che ivi si ode, la furia diabolica del
vento che spegne tutte le torce, la visione macabra degli spirili nani li birritteddi
russi 'ntesta, accovacciati su botti piene d'oro». Quel che si racconta, del resto,
fa parte di quelle leggende cosiddette plutoniche, comuni a tutte le località già in
possesso di dominatori stranieri, specie arabi, i quali, costretti a fuggire, avrebbero
affidato alla terra, anziché ai loro nemici, i propri tesori.
Ma leggende a parte, un tesoro a Vitosoldano è stato realmente trovato: e ciòagli inizi del nostro secolo, quando un anziano possidente, volendo trasformare
un suo campo in vigneto, iniziò i lavori di sbancamento del terreno. E da sottoterra
allora venne fuori un'anfora colma di lucenti monete d'oro, una parte delle quali il
vecchio fattore distribuì agli operai e il resto tenne per sé.
Erano monete del VII secolo d.C., del tempo cioè dell'imperatore d'Oriente CostantinoIV Pogonato. E ciò è un'ulteriore conferma
della prosperità di Mozio in età romano-bizantina.
Per quanto riguarda i resti archeologici di Mozio, nel vasto altopiano di Vitosoldano,
è di notevole interesse la testimonianza del canicattinese Diego Corbo,
il quale nella prima metà dell'Ottocento, prima quindi che il suolo venisse
più gravemente manomesso, potè osservarli direttamente e descriverli nelle
Notti sicole, amene, storiche e fìlosofiche alle vette dell'Etna.
Così egli ne parla: «Sopra di un colle a mezzogiorno, si vedono gliavanzi di un tempio dì Cerere, perché al confine della città.
Fuori della medesima nelle rupi, si osservano grandiosi sepolcri,
e stanze mortuarie piene di ossame. Nella pianura resti di tegole, di
mattoni, di acquedotti, ed altre anticaglie fan comprendere che la città
non era meno di due miglia di circuito, e Cicerone ne celebra la fertilità
delle sue campagne sotto il nome di campi Geloi, che sono posti i
n una pianura amena, e ben grande.
Si son trovate e si trovano delle medaglie in mezzo alle rovine».Anche su Canaletti lo scrittore canicattinese ci ha lascialo un'importante teslimonianza.
Egli scrive testualmente «Lungi tre miglia da Vitosoldano in un luogo chiamato Casalotti,si osserva un colle, ed una pianura ove si vedono da per tutto anticaglie di case, di tegole,
di mattoni, avanzi dì mura fabbricate di grosse pietre lavorate in quadro,
quantità di sepolcri e sì trovano ancora vasi di terracotta, di un mediovre lavoro,
e medaglie di argento....
Si congettura da alcune medaglie romane colà ritrovate,
che esisteva ai tempi di Costantino».
Da: "Sotto e Sopra" - Guida ai siti speleologicie monumentali della provincia di Agrigento - Vol. II - Ed. 2005
SiciliAntica
Associazione per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali
Creazione Sito Web ~ CLIC - Consulenze per il Web Marketing
Ottimizzazione Siti Web ai primi posti sui motori di ricerca a cura di A. Argentati - Consulenze Aziendali per Internet