testo della lezione tenuta da Simona Modeo nell'ambito del corso "Archeologia nella Sicilia orientale" il 9 giugno 2007 presso il centro culturale "Le Ciminiere" di Catania
Inquadramento topografico e geomorfologico del sito
La montagna di Sabucina si trova a circa 10 km a Nord Est di Caltanissetta, sulla destra orografica del fiume Salso, l’antico Imera, e si eleva a m 720 s.l.m. (fig. 1). Geologicamente è caratterizzata dall’affioramento di una formazione calcarenitica del Pliocene medio-inferiore (note come Marne di Enna). Litologicamente può definirsi come un calcare organogeno in quanto costituito dall’accumulo di gusci di lamellibranchi, pettinidi ed echinidi, con qualche granulo di quarzo arrotondato, tenuti insieme da un cemento carbonatico.
Insieme alla montagna di Capodarso, Sabucina controlla il punto in cui la valle del Salso si restringe e proprio per questa ubicazione strategica e geografica il sito occupa una posizione di notevole rilievo a controllo delle vie di penetrazione militare e commerciale verso il territorio più interno di questa parte dell’isola, che coincide con l’area della Sikania (fig. 2). Questo territorio in tempi remoti era abitato dai Sicani, cioè da quel gruppo etnico di cui parlano le fonti antiche (Aristot., Meteor. 2, 3; Hellan. II, 10; Hdt. VII, 170; Steph. Byz., 566). Alcuni autori ci riportano soprattutto notizie sugli scontri e sui rapporti tra Sicani, Siculi e Greci (Diod., V, 6, 2-3; XIII, 59, 6; XIV, 55, 6-7; XVI, 9, 5; XVII, 73, 2; Polyain., V, 1.3 ), ma non sono chiari circa i limiti territoriali di ciascuno dei predetti gruppi etnici dell’Isola. Tuttavia, gran parte delle città sicane risultano rintracciabili, anche a detta della storiografia moderna, proprio in un ambito geografico gravitante nell’area tra Agrigento e Gela, nella quale molti degli avvenimenti connessi alle relative vicende storiche sembrano concentrarsi. In considerazione di quanto sopra detto, allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’antica Sikania potrebbe coincidere con quel territorio della Sicilia centro-meridionale compreso tra il corso di due fiumi, il Salso, l’antico Himeras, che lo margina ad Est, e il Platani, l’antico Halykos che ne segna il confine geografico ad Ovest.
È questa l’area nella quale, ancora in età storica, le popolazioni indigene, se pure fortemente ellenizzate, mostrano chiari segni di una propria identità culturale che si coglie sia nella documentazione materiale, sia nel mantenimento di modelli architettonici, utilizzati in ambito funerario e domestico (PANVINI 2006, p. 71). Anche il centro di Sabucina si trova in questo territorio e fu certamente sede di una cittadella sicana come documentano le strutture architettoniche e i reperti riportati alla luce a seguito dell’indagine archeologica avviata già dalla metà del secolo scorso e che perdura fino ad oggi. Storia della ricerca archeologica Il sito viene citato per la prima volta nella metà del secolo scorso nell’opera di T.J Dunbabin, quando l’autore descrive in modo preciso e dettagliato l’espansione dei Geloi nell’interno dell’Isola (DUNBABIN 1948, pp. 112-120; SEDITA MIGLIORE 1991, p. 13). Ma il centro di Sabucina fu per la prima volta esplorato e localizzato topograficamente da D. Adamesteanu nel 1955-56 (ADAMESTEANU 1958).
Successivamente l’interesse fu rivolto soprattutto alle necropoli: scavi furono effettuati da P. Griffo con la collaborazione della Associazione Archeologica Nissena nella necropoli orientale. Indagini sistematiche si sono susseguite a partire dal 1962 ad opera di P. Orlandini, al quale si devono le scoperte del villaggio capannicolo della facies di Pantalica Nord e dei resti degli insediamenti dell’età indigena e greca , che hanno consentito di tracciare un primo e fondamentale quadro storico-topografico del centro – uno dei tanti phrouria dell’entroterra – e di delinearne le varie fasi e vicende costruttive (ORLANDINI 1963, pp. 86-89; ID. 1965, pp. 133-140; ID. 1968, pp. 151 ss.). La prosecuzione dell’indagine archeologica negli anni ’70 è stata rivolta alla definizione dell’assetto urbanistico della città del V secolo a.C. (DE MIRO-FIORENTINI 1972-1973, pp. 244-245; Id. 1975, pp. 123-126 ). Le campagne di scavo condotte negli anni successivi (1976-79/1990) da E. De Miro e Graziella Fiorentini, con la diretta partecipazione di Rosanna Mollo Mezzena, hanno modificato e integrato il quadro ricostruttivo tracciato da P. Orlandini, circa la sequenza insediativa a Sabucina, soprattutto in riferimento alla fase protostorica e alla caratterizzazione complessiva dell’area sacra esterna alla Porta II (DE MIRO 1980, pp. 132-133; ID. 1980-1981, pp. 561-666; ID. 1983, pp. 335-344; ID. 1985, pp. 94-104; MOLLO MEZZENA 1990, pp. 31-38; EAD. 1993, pp. 137-181). Ulteriori elementi di conoscenza, relativi alle fasi di occupazione dell’abitato e al santuario extramoenia attivo tra l’età tradoarcaica e la fine del IV secolo a.C., nonché alla vita nel comprensorio durante l’età romana, si devono infine agli scavi condotti tra il 1991 e il 1996 da R. Panvini, rispettivamente nell’area a Sud-Ovest della città greca e nella necropoli medioimperiale di contrada Lannari, posta ai piedi del colle di Sabucina (PANVINI 1993-1994; EAD. 1997-1998; EAD. 2002; PANVINI-ZAVETTIERI 1993-1994). Le ultime campagne di scavo effettuate a Sabucina, ad opera di R. Panvini, risalgono al 2003-2004 ma i risultati di queste recenti indagini archeologiche sono ancora in corso di stampa. Fasi di frequentazione del sito I dati provenienti dall’indagine scientifica e metodologica delle strutture e dei reperti, consentono di delineare nella maniera seguente le varie fasi di vita del centro di Sabucina: - Tracce di insediamenti dell’eneolitico iniziale sono state individuate in contrada Lannari: si tratta di una tomba a fossa contenente due inumati e i cui corredi sono riferibili all’orizzonte culturale di San Cono-Piano Notaro (fine del IV-inizi del III millennio a.C.) (PANVINI 1997-1998, p. 22, tav. XXI, fig.2; EAD., 2003, p. 48). - Nell’età del bronzo antico, ai piedi della montagna di Sabucina, esistevano alcuni villaggi di facies castellucciana (2200-1450 a.C.). Ciò sembrerebbe attestato dall’esistenza di piccoli gruppi di tombe a grotticella artificiale, ancora oggi visibili ai margini della strada di accesso agli scavi (PANVINI 2003, p. 41). - Al bronzo medio sono riferibili invece i resti di una capanna con focolare venuta alla luce nell’area della necropoli romana di contrada Lannari e al cui interno si sono rinvenuti alcuni reperti ceramici pertinenti allo stile di Thapsos (XV-XIII sec. a.C.) PANVINI 1997-1998, p.21, tav. XX, fig. 2; PANVINI 2003, p.49). - Tra il XIII e il X secolo a.C., sui pendii della collina di Sabucina sorse un esteso abitato capannicolo della facies di Pantalica I e II del quale è stato possibile distinguere tre momenti d’uso. - Tra il X e il IX secolo a.C. un modesto abitato, riferibile all’orizzonte culturale di Cassibile, si impiantò sui resti del precedente villaggio capannicolo. - Tra l’VIII e il VII secolo, un nuovo insediamento con case rettangolari occupò la vetta e le pendici dell’altura e furono organizzate anche le aree di culto. - Nel VI secolo a.C., il sito venne ellenizzato dai coloni greci di Gela nell’ambito del loro progetto espansionistico verso l’interno della Sicilia, secondo un preciso disegno politico e militare che prevedeva la fondazione di phrouria (centri fortificati), o di vere e proprie poleis (città), a controllo delle vie di penetrazione commerciale e militare; la cittadella di Sabucina fu cinta da mura di fortificazione con torri semicircolari delle quali si conservano pochi resti. - Intorno alla metà del V secolo a.C. il centro subì una violenta distruzione come tanti altri φρούρια τω̃ν Ελλήνων (centri fortificati dei Greci) distrutti da Ducezio durante la famosa rivolta delle città sicule contro i Greci (Diod. XI, 91). - Nella seconda metà del V secolo a.C. la città venne ricostruita e cinta da un nuovo muro di fortificazione. - Alla fine del V secolo a.C. il sito venne abbandonato in seguito alla vittoria dei Cartaginesi sui Greci. - Nel corso del IV secolo a.C. Sabucina, così come tante altre città dell’Isola, venne nuovamente ripopolata, ad opera di Timoleonte, con nuovi coloni. - Dopo il 310 a.C. il sito venne definitivamente abbandonato e la popolazione si trasferì in fattorie e borghi ubicati ai piedi della collina, come era avvenuto anche per altri siti della Sicilia. - Per l’età romana, imperiale soprattutto, si ha la testimonianza del formarsi di fattorie e ville nella pianura che si estende ai piedi della montagna, come suggerisce, peraltro, il complesso abitativo di Piano della Clesia e la relativa necropoli in contrada Lannari.
L’abitato in età preistorica
Oltre alle scarse testimonianze, già precedentemente citate (vedi supra p. 3), riferibili all’eneolitico iniziale, al bronzo antico e al bronzo medio, la documentazione più rilevante per questo periodo è certamente quella del bronzo recente e finale. La scoperta del villaggio capannicolo riferibile alla facies di Pantalica I e II (XIII-X secolo a.C.) avvenuta nel 1962, destò infatti grande interesse nel mondo scientifico: si tratta di uno dei pochi complessi abitativi scavati per esteso e appartenente al periodo sopra indicato, finora noto soprattutto attraverso le grandi necropoli rupestri di Pantalica Nord (eponima della facies) con il relativo anaktoron, di Caltagirone e di Dessueri. Le indagini archeologiche effettuate nell’insediamento hanno consentito di distinguere tre fasi abitative nell’ambito cronologico del periodo assegnabile alla cultura di Pantalica e rispettivamente contraddistinte anche da sensibili differenziazioni nella tecnica edilizia adottata. Al primo momento (secolo XIII-XII a.C.), coincidente con l’occupazione del sito, apparterrebbero le capanne circolari ricavate nel banco roccioso (diam. variabile da m 3,50 a m 7,00) e contenute a monte da un alto gradone. La struttura portante era costituita da un’orditura lignea sostenuta da pali infissi in fori circolari ricavati nella roccia (capanne 16b, 21b, 22b, 23). Le interconnessioni tra i pali, come pure la copertura superiore, erano, in questo caso, ottenuti con frasche, strame e altri elementi vegetali, a loro volta legati con argilla cruda allo scopo di isolare e impermeabilizzare l’interno dell’abitazione. Il pavimento era realizzato con un sottile battuto di argilla, al centro del quale si conservava talvolta il piatto focolare. Le capanne erano in connessione planimetrica con gli ipogei 1/83 e 2/84 scavati artificialmente nella roccia con dromos di accesso e per i quali sembra ormai accertata un’iniziale funzione prevalentemente abitativa, data la sostanziale identità, tipologica e funzionale tra i reperti mobili rinvenuti al loro interno (vasellame, piastre fittili, ossa lavorate e non) e quelli provenienti dalle capanne sopra descritte (PANVINI 2003, p. 41). Gli ipogei probabilmente erano usati come luogo di ricovero stabile o temporaneo e la scoperta, all’interno dell’ipogeo 1/83, di un pozzetto rituale con deposizione di corna e ossa di bovidi, arieti, cervidi, sembrerebbe riconducibile alla celebrazione di modesti culti domestici a carattere agro-pastorale. Tra il XII e il X secolo a.C. questi ipogei vengono riutilizzati con funzioni diverse: l’ipogeo 1/83 diventa deposito di argilla depurata (in collegamento funzionale con la contigua capanna 16a) e di quest’ultima è stata trovata una grande quantità regolarmente stipata con muretti di contenimento; l’ipogeo 2/84 invece viene adibito a luogo di sepoltura. La seconda fase insediativa (XII-X secolo a.C.), sempre nell’ambito dello stesso orizzonte culturale, è caratterizzata dalla presenza di capanne a pianta circolare o mistilinea, parzialmente incassate nella roccia, delimitate da strutture di pietrame a secco (diam. m 4,90-7,90) disposte sulle pendici della collina artificialmente sistemata a terrazza (capanne 15, 16a, 17-20, 21a, 22a) (fig. 4). Anche alcune capanne della fase precedente continuarono ad essere usate e chiuse da muri di pietrame. La capanna 16a, ad esempio, fu trasformata in capanna-fornace con un forno sub-circolare delimitato da blocchetti di argilla cotta, utilizzato per la produzione di vasellame in parte rinvenuto ancora in loco. Tra i contesti abitativi di questa fase destinati ad una specifica funzione è da segnalare anche il complesso meridionale della c.d. fonderia, così denominata per l’interessante ritrovamento di una serie di matrici in pietra refrattaria, destinate alla fusione, evidentemente praticata localmente, di armi ed utensili vari in metallo (fig. 5). I dati di scavo denotano quindi il passaggio da un’economia agro-pastorale ad un’economia artigianale, che vede anche l’emergere di gruppi egemoni nelle mani dei quali è concentrata la ricchezza, rappresentata dal metallo nonché dalla detenzione dei mezzi di produzione (le matrici di fusione) e delle tecniche di lavorazione. Il materiale ceramico ritrovato sul pavimento delle capanne ed ivi lasciato al momento del loro abbandono ha una sostanziale uniformità tipologica ed un limitato numero di forme sia del tipo ad impasto, che tornito a stralucido rosso o bruno-grigiastro. Le forme più diffuse sono le brocche, le scodelle, le coppe su alto piede e le anfore. Un momento ancora successivo (XI-X secolo a.C.), sembra essere allo stato attuale rappresentato da un unico complesso abitativo, articolato in due vani contigui ma non comunicanti (XXXIX- XL), delimitati da muri in pietrame e caratterizzati da pianta decisamente rettangolare. La costruzione bicellulare, suddivisa in un vano principale antistante e in uno retrostante secondario con funzione di servizio, rappresenta a Sabucina un’innovazione rispetto ai moduli circolari delle fasi precedenti; infatti il modulo rettangolare si confronta bene nella Sicilia orientale, oltre che con il ben noto complesso abitativo di Thapsos (fase più recente), anche con l’evidenza della Metapiccola presso Lentini (X secolo a.C.), o con quella relativa alla più vicina Morgantina (IX secolo a.C.), nonché ad Ovest, con qualche esempio isolato, probabilmente più antico del territorio di Milena sulla Rocca Amorella. Ma anche il modulo costruttivo lineare che si sostituisce a quello circolare locale, non può che ricondursi a modelli transmarini, egei in particolare. Tra il vasellame rinvenuto negli ambienti di questa terza fase insediativa prevalgono i materiali di impasto (anfore, tazze con anse impostate sull’orlo, ciotole emisferiche) associate talvolta a ceramica a stralucido fine. Tuttora aperto rimane il problema relativo alla localizzazione della necropoli corrispondente all’abitato del tardo bronzo di Sabucina nel suo complesso, parte della quale va probabilmente identificata nella diverse strutture a tholos fornite di dromos di accesso, presenti sia a Nord sia a Sud della cinta muraria di V secolo a.C.. Il loro impianto in età preistorica e l’originaria destinazione funeraria sembrano indubitabili (anche se a causa di spoliazioni effettuate già in antico nessuna di esse è stata mai rinvenuta intatta con il proprio corredo) (PANVINI 2003, p. 42). Il villaggio subì nel periodo del bronzo finale (alla fine del X secolo a.C.) una violenta distruzione, come testimonia lo strato di bruciato che ricopriva i resti degli ambienti rettangolari. Ma la vita continuò a Sabucina: tracce di modeste abitazioni sono state ritrovate in più punti e da esse provengono materiali fittili, quali ceramica piumata e pithoi a flabelli, della cultura di Cassibile, e vasi a decorazione impressa del tipo Sant’Angelo Muxaro-Polizzello, che documentano il momento di passaggio tra il bronzo finale e l’età del ferro.
L’abitato tra l’VIII ed il VII secolo a.C.
L’abitato indigeno si sviluppò sui resti dei precedenti insediamenti preistorici ed è costituito da piccole abitazioni di forma sub-rettangolare, o ad angoli arrotondati, spesso ricavate nella roccia o costruite con strutture murarie di pietrame di vario taglio e di modesta fattura. Compaiono case ad un solo vano o abitazioni più complesse (ambienti XXXV, XXXVII, XXXVIII), formate da più vani disposti intorno ad uno spazio aperto. In questo periodo furono riutilizzate come sepolture le tombe a grotticella artificiale di età preistorica, sia quelle ubicate sulle pendici meridionali della collina, sia quella (c.d. “Grotta cavallo”) ricavata su una modesta altura, a Sud della strada di accesso alla zona archeologica (PANVINI 2003, p.43). L’area sacra a Sud del muro di fortificazione Mentre l’abitato indigeno era stato organizzato con strutture rettangolari, che adottarono la forma circolare della capanna con portichetto trapezoidale antistante. Il primo (Settore A – “capanna-sacello” B) si trovava all’estremità occidentale dell’area e ha una cella circolare di 5,50 m di diametro e un pronao irregolare aperto ad Est. Il secondo complesso sacro (Settore D) era ubicato nel punto in cui le strade, salendo dalle pendici della collina, si congiungevano formando un’unica rampa che attraversava la c.d. Porta II; esso era destinato probabilmente al culto delle divinità ctonie e presenta una serie di articolate modifiche succedutesi nel tempo, a partire dall’ VIII secolo a.C. Alla fase iniziale (fine VIII secolo a.C.) appartiene la costruzione dell’edificio D a pianta rettangolare allungata, caratterizzata da una banchina in mattoni crudi con rialzi cilindrici cavi, probabilmente usati come sostegni per vasi o bothroi rituali. Tra il VII e la prima metà del VI secolo a.C. nella stessa area fu impiantato un sacello circolare (“capanna-sacello” A) con banchina sul fondo e ingresso ad Est, preceduto da un portichetto irregolare con due colonne a sfaccettatura poligonale delle quali rimangono due grossi frammenti dell’imoscapo e il capitello dorico con echino ottagonale reimpiegato all’interno delle mura. L’edificio circolare era abbinato a Sud ad un’altra capanna cultuale. (PANVINI 2003, p.43) Dallo scavo del sacello, tra i reperti portati alla luce dagli archeologi, proviene anche il noto modellino di tempietto fittile in antis, sostenuto da un piedistallo e decorato nel timpano da figure apotropaiche e da Dioscuri a cavallo sul colmo del tetto (fig. 6). L’edificio circolare (“capanna-sacello” A: diam. m. 7,00) perpetua ancora nel VI secolo a.C. la tradizione indigena della capanna del bronzo tardo, alla quale si accosta un vestibolo che richiama il pronao dei tempietti greci. Gli studiosi hanno giustamente rilevato che la struttura rotonda o ovale è estranea all’architettura geometrica greca e i pochi esempi conosciuti vanno ricondotti a forme locali, come il modellino di Archanes e l’Ovalhaus dell’antica Smirne, fatta eccezione ancora per l’edificio a fronte absidata con portichetto di Solygheio a Corinto. Tra la metà del VI e la metà del V secolo a.C. fu costruito un sacello a pianta rettangolare (Sacello B: m 6,50 x m 9,25) con probabile ingresso a Sud , che inglobò parzialmente il perimetro di una delle predette capanne cultuali, la quale fu utilizzata come banchina ad arco; al centro del complesso fu posto un altare. L’adozione di un modello cultuale di tradizione architettonica greca, associato al sacello circolare, attesta una radicale trasformazione del centro indigeno, sotto l’influenza greca. Nella prima metà del V secolo a.C. l’originario impianto del sacello subì alcune modificazioni: sovrapposizione di un nuovo suolo; costruzione di un nuovo altare circolare e di un altare rettangolare (m 0,78 x m 0,95) addossato al lato occidentale dell’edificio, del tipo con bothros (PANVINI 2003, p. 44) .
Nella seconda metà del V secolo a.C. all’ambiente predetto fu sovrapposto un nuovo piano di calpestio che coprì la banchina semicircolare, mentre restò in uso l’altare circolare e fu costruita una banchina in muratura sul lato Nord. Nell’angolo Nord-Ovest dell’edificio fu rinvenuta una stipe combusta con ossa e mandibole di porcellini, anelli bronzei, collane di astragali, fibule a navicella: il materiale conferma la destinazione dell’edificio a culti ctonii. All’esterno un cortiletto di forma irregolare, coperto e chiuso da due muri di pietrame, con ingresso ad Est e fon focolari rituali a Sud faceva da cerniera tra l’edificio rettangolare e la capanna-tempietto e ne costituiva un’appendice. A Sud il sacello fu chiuso da un muro di peribolo. A completamento del complesso sacro fu realizzato ad Est un edificio rettangolare (m 11,50 x m 4,80) con strutture di pietrame orientate in senso Nord-Sud, da interpretare come una lesche (luogo di riunione). Sul pavimento di tale ambiente vi era uno strato di bruciato, testimonianza dell’incendio delle strutture lignee del tetto, a contatto del quale sono state raccolte tegole e antefisse sileniche.
L’abitato dal VII al IV secolo a.C.
Nel corso del VII secolo a.C. il centro indigeno di Sabucina entrò in contatto con i coloni rodio-cretesi di Gela. Infatti, la presenza di ceramica corinzia d’imitazione e dell’Imera, erano penetrati per scopi commerciali e politici verso l’interno della Sicilia. Intorno alla metà del VI secolo a.C., il sito venne definitivamente ellenizzato: un nuovo abitato fu costruito sulla parte più alta della montagna e difeso da un muro di fortificazione cui appartengono le torri semicircolari aggettanti dalla stessa struttura. All’interno del muro di cinta si estendeva l’abitato con complessi edilizi composti da ambienti rettangolari ; questi erano perimetrali da strutture murarie di pietrame e terra o tagliati nella roccia ed erano disposti sui lati di un cortile nel quale vi era spesso una cisterna per l’approvvigionamento idrico. Sorsero in questo momento edifici di culto in prossimità delle mura di cinta, dai quali provengono antefisse con teste di Sileni o di Gorgoni (fig. 7) e statuette votive. Verso la metà del V secolo a.C. il sito subì come altri centri dell’Isola una violenta distruzione che gli storici hanno attribuito a Ducezio, che aveva organizzato la rivolta delle città sicule contro i Greci (Diod. XI, 91).
Nel corso della seconda metà del V secolo a.C. la città venne ricostruita e cinta da un nuovo muro di fortificazione. Quest’ultimo si sviluppa in senso Est-Ovest dal ciglio orientale della collina, ha uno spessore di m 1,50-1,80 ed è formato da una massicciata di pietre a secco. Il muro era difeso da torri quadrangolari. All’esterno del muro di cinta si estendeva un quartiere artigianale dove vi era anche una fornace munita di condotti regolari a forma rettangolare, per la cottura dei vasi. Il quartiere era disposto a semicerchio e completava in maniera scenografica il santuario del Settore D, utilizzato ancora nella seconda metà del V secolo a.C. Le abitazioni di quest’epoca avevano forma rettangolare e pianta allungata con ambienti disposti attorno ad un cortile lastricato ed erano orientate perpendicolarmente al muro di cinta (PANVINI 2003, p. 44). Alla fine del V secolo a.C. la città, come tanti altri siti dell’Isola, in seguito alla vittoria dei Cartaginesi sui Greci, venne abbandonata e solamente intorno alla metà del IV secolo a.C. risorse ad opera di Timoleonte, che fece venire dalla Grecia, da Corinto in particolare, nuovi coloni per ripopolare le città siceliote. La città venne ricostruita sui resti delle strutture di età precedente, ma in molti casi furono riutilizzate ed ampliate le vecchie abitazioni. Sempre nel IV secolo a.C. fu costruito sulla parte alta del pendio occidentale della collina un nuovo quartiere di abitazioni (Settore B), che presentava un assetto urbanistico di tipo greco, con case allineate e divise da stretti ambiti. Nella sua composizione l’abitato rivela un aspetto più ordinato, gli ambienti sono dotati di focolari o piccoli forni e sono sempre disposti in modo ortogonale rispetto al muro di cinta. Nello stesso periodo il muro di cinta fu rinforzato e vennero costruiti nuovi ambienti di forma rettangolare, da interpretarsi come casermette per militari. La città fu definitivamente abbandonata intorno al 310 a.C.; infatti, non è stato ancora trovato materiale di età posteriore. È probabile che la popolazione si sia trasferita in fattorie e borgate poste sulla pianura ai piedi della collina, dove sono stati trovati resti di insediamenti rurali.
Le necropoli
Le necropoli di età greca si estendevano all’esterno del centro abitato e più precisamente sui pendii ad Est, ad Ovest e a Sud del muro di fortificazione. Sul pendio meridionale sono state individuate un gruppo di tombe a grotticella, di età preistorica, riadoperate e riadattate in epoca greca con l’inserimento, nell’ingresso, degli stipiti e dell’architrave. L’area sepolcrale più intensamente usata è quella sul pendio occidentale dove sono state portate alla luce la maggior parte delle tombe. La tipologia delle sepolture di età arcaica è quella comune ad altri centri greci dell’Isola; sono presenti tombe a fossa chiuse da lastre di pietra e tombe a fossa chiuse da tegole poste in piano. Una sola tomba a fossa era rivestita da blocchetti di pietra, ma sono state riportate alla luce anche tombe definite da tegole, del tipo cosiddetto “alla cappuccina”, tombe contenenti il sarcofago e una sola sepoltura in anfora utilizzata per l’inumazione di un infante; infine, strina e pozzetti contenenti il vaso cinerario.
Le sepolture erano disposte in maniera ordinata e tutte rigidamente orientate in senso Est-Ovest; alcune avevano le pareti interne rivestite d’intonaco. L’uso dell’area sepolcrale copre un periodo compreso tra la fine del VI e il terzo venticinquennio del V secolo a.C. secolo. I corredi recuperati sono costituiti, nella maggior parte dei casi, da vasi attici (fig. 8) associati a ceramica di produzione indigena o coloniale. Nella seconda metà del V e nel IV secolo a.C. le sepolture furono riutilizzate: talora le ossa degli inumati del periodo precedente furono raccolte in ossari (Tombe 97, 327, 342) La tomba 97, più in particolare, è un ossilegium costituito da una cassetta fittile nella quale furono raccolte le ossa di un’inumata, il cui corredo, comprendente due lekythoi miniaturistiche con raggera sulla spalla, è assegnabile alla prima metà del V secolo a.C. (figg. 9 e 10). La sepoltura 342, invece, è uno stamnos fittile databile alla prima metà del V secolo a.C. e riadoperato in un secondo momento come ossario; esso è corredato da un’iscrizione la cui lettura è stata restituita da Renato Arena nel seguente modo: πυραις εποιεσε Κλι(συμις), cioè “Κλι(συμις) fece per le pire” (ARENA 2000, pp. 43-46). Quindi fin dall’inizio lo stamnos avrebbe avuto la funzione di contenitore dei resti del rogo.
Nella Tomba a fossa e nella Tomba 69 della necropoli Nord-Est, compare un guttus a vernice nera del IV secolo a.C., destinato ad un infante, che documenta l’ultima fase d’uso della necropoli. La riutilizzazione delle tombe corrisponde ad un periodo di decadenza della città: infatti, in quei casi, i corredi sono poverissimi o addirittura le tombe si presentano prive di corredo. Elevato è, nella prima metà del V secolo a.C., il numero delle tombe di bambino di età inferiore ad uno o a due anni, la cui morte era stata forse causata dalle precarie condizioni igieniche e sociali (PANVINI 2003, pp. 44-45). Il santuario extramoenia A Sud-Ovest dell’abitato di Sabucina, su un pianoro in forte pendio verso Nord, sorgeva un santuario rupestre di culto conio, indagato con due successiva campagne di scavo condotte tra il 1991 ed il 1992; esso fu frequentato tra il VI e gli inizi del IV secolo a.C., ma, in epoca tardoantica, l’area di culto fu occupata da una piccola necropoli con tombe a fossa e ad enchytrismos (deposizioni di inumati in contenitori fittili). Il complesso, comprendente ad Est una serie di edifici di culto pluristratificati (Settore A) e da Ovest degli ambienti destinati all’immagazzinamento delle offerte votive (Settore B), presenta diverse fasi d’uso.
Tra il VI ed il V secolo a.C. nel sito sorsero alcuni edifici per il culto (Settore A): un edificio quadrangolare di cui resta l’angolo nord-ovest ed un altro edificio bipartito, di cui restano tracce delle strutture, quasi certamente da interpretarsi come un sacello senza peristasi, del tipo già noto e diffuso in Sicilia in complessi coevi. Più ad Ovest del precedente, vi era un ambiente di incerta destinazione, con muri perimetrali in pietrame a doppio paramento. Evidentemente il santuario era ben più vasto di quello sopra descritto: esso si estendeva anche ad Ovest (Settore C), dove non sono state rintracciate strutture, che sono state distrutte, in quanto affioranti, dall’impianto di una moderna trazzera. Nell’area sono stati comunque raccolti molti frammenti ceramici assegnabili all’ultimo venticinquennio del VI secolo a.C. Il complesso sacro sopra descritto era cinto, a Nord, da un muro di pietrame a doppio paramento.
Sempre a questa fase appartengono alcuni edifici rupestri con copertura di tegole (Settore B, Ambienti A-B) le cui strutture perimetrali poggiavano sul banco roccioso. Essi erano destinati a deposizioni differenziate di offerte: in uno di tali ambienti (Ambiente B), infatti, sono state ritrovate soprattutto lucerne e monete di Agrigento; nell’altro ambiente (Ambiente A), invece, vi erano una statuetta femminile del tipo c.d. con pettorali, un busto fittile di Demetra, due lucerne e un tetras agrigentino.
Il santuario fu distrutto, come il relativo centro abitato, intorno alla metà del V secolo a.C., probabilmente a causa degli eventi della rivolta di Ducezio contro i Greci. Una temporanea quanto affrettata ripresa di frequentazione del santuario (Settore A) è attestata dalla costruzione di un ambiente del quale rimane un brandello di muro con pietrame a rozza squadra e con il solo paramento esterno; esso è assegnabile alla seconda metà del V secolo a.C per il rinvenimento, al di sotto del suo piano d’uso, di un tetras siracusano. La presenza di una lekythos miniaturistica, di una kylix e di alcune lucerne, sembrerebbe documentare la sopravvivenza degli ambienti rupestri A e B. La ricostruzione del complesso nel V-IV secolo a.C. contemplò la realizzazione, nel Settore A, di un edificio di forma rettangolare, probabilmente un portico, decorato da antefisse sileniche. Esso si conserva sul lato settentrionale per una lunghezza di m 11,5, ma manca del tratto orientale. Nel Settore B, agli ambienti A e B si addossarono a Nord, due nuovi veni, privi di copertura, dei quali non si è conservato l’elevato delle strutture perimetrali. In questi ambienti sono stati rinvenuti abbondanti reperti ceramici e numerose monete agrigentine. È probabile che questi due ultimi vani abbiano avuto una funzione di immagazzinamento delle offerte votive, anche di quelle provenienti dagli edifici sacri preesistenti, abbandonati nel V secolo a.C. Il predetto complesso sacro, composto dal sacello, dal portico e dagli ambienti rupestri, richiama altri santuari dell’Isola dedicati al culto di Demetra e Kore. La sequenza degli impianti si accorda con le vicende vhe hanno scandito la frequentazione e gli interventi edilizi del vicino centro abitato che, come detto, fu abbandonato alla fine del IV secolo a.C. I materiali e le monete di Agrigento confermano l’influenza e il ruolo che Akragas ha avuto nelle vicende politiche ed economiche dell’antico centro di Sabucina. Ad un momento successivo (II-III secolo d.C.) sono da attribuire un gruppo di tombe, una delle quali del tipo ad enchytrismos (Tomba 2 ) e quattro tombe (Tombe 1, 3, 4 e 5), invece, con spallette e copertura di pietre, le quali sono da mettere in relazione con un piccolo insediamento rurale. La povertà degli inumati è testimoniata dai miseri corredi e dalle sepolture plurime entro tombe monosome (PANVINI 2003, pp. 45-46).
Sabucina in età romana: la necropoli sub divo in contrada Lannari La necropoli sub divo tardo romana in contrada Lannari si trova a pochi chilometri ad Est della città di Caltanissetta, immediatamente a Sud-Est delle estreme pendici di Monte Sabucina ed insiste su un’altura di modesta elevatura, prossima alla destra orografica del fiume Salso, l’antico Himera (fig. 11). Nelle sue immediate vicinanze vi è la zona di Piano della Clesia, dove negli anni ’60 l’Associazione Archeologica Nissena raccolse lucerne, frammenti di ceramica in terra sigillata africana, che indicavano nel luogo la presenza di un insediamento abitativo, forse una fattoria o una villula, abitata tra il I ed il II secolo. Nella stessa area, infatti, furono recuperati il famoso busto dell’imperatore Geta (fig. 12) ed un tegolo con bollo PHILIPPIANI, che suggeriva di localizzare nel sito i praedia di un certo Philippianus, nome comunque non attestato nelle fonti antiche.
Nella necropoli a seguito di due regolari campagne di scavo archeologico sono state riportate alla luce circa sessanta tombe, disposte senza un preciso ordine, quasi tutte con orientamento E-O. Esse tipologicamente possono essere distinte in: - tombe a fossa di forma rettangolare, appena incisa nella nuda terra, con copertura di lastroni, in alcuni casi mancanti a causa dello sconvolgimento degli strati in seguito a lavori di miglioramento agrario; - tombe a fossa terragna, di forma rettangolare, incise profondamente nel terreno e talvolta chiuse da lastroni; - tombe a fossa terragna con pareti rivestite da blocchetti di pietra tufacea, spesso chiuse da lastroni litici.
E’ documentato solo il rito dell’inumazione e sono state riscontrate tombe polisome, riconducibili probabilmente a membri della stessa cerchia familiare; in esse i resti ossei degli individui più antichi venivano accantonati lungo una delle testate della fossa, in modo da permettere l’introduzione di un nuovo inumato, rinvenuto in connessione anatomica.
In un caso, tomba 20, sono stati rinvenuti due individui di sesso differente, e, più specificatamente, una donna ed un infante abbracciati; essi, appartenenti ad uno stesso nucleo familiare, erano morti a poca distanza di tempo l’uno dall’altra, in quanto per seppellire la donna era stata allungata la testata occidentale della fossa e l’inumata era stata deposta nell’atto di abbracciare il bambino. Due sole tombe a fossa mostravano evidenti resti di cremazione (T. 44 e T. 46), a testimonianza di un rito diffuso nel II sec. d.C. La tomba 46 era coperta da lastre fittili poggiate su spallette ricavate nella terra. Sui punti di giuntura dei lastroni, erano collocati tegoli e, tra quelli posti tra la prima e la seconda lastra, era infisso un tubo fittile. Sul fondo della fossa, interamente combusta, sono stati rinvenuti chiodi di ferro, pertinenti al letto funebre, cenere e resti di corredo combusto, del quale facevano parte una lucerna e un’ampolla vitrea; si tratterebbe in questo caso di una deposizione primaria a cui seguì una deposizione di altri elementi del corredo (piatto carenato, coppetta carenata in terra sigillata, olletta fittile), collocati sulla spalletta della testata settentrionale. Al rito del refrigerium post mortem, sono da riferire due ampolle di vetro a corpo sferico e collo cilindrico ritrovate combuste sui lastroni di copertura.
L’altro caso di cremazione è rappresentato dalla tomba 44, sul cui piano sono stati rinvenuti ceneri, ossa combuste, pezzi di legno carbonizzati e il corredo costituito da una lucerna africana, da una lucerna a disco, da una tazzina fittile, da un boccaletto ovoidale e da una moneta illeggibile. Va precisato che solo la lucerna e la moneta risultavano pertinenti alla cremazione primaria, dato che erano combusti, mentre gli altri elementi del corredo sarebbero stati deposti a rito ultimato. Le analisi antropologiche hanno permesso di accertare che entrambi gli individui erano affetti da talassemia, che certamente non fu la causa della loro morte.
Il rituale funerario è caratterizzato dalla presenza del corredo sempre deposto all’interno della tomba e quasi sempre in prossimità degli arti inferiori; è stato riscontrato che non esistevano elementi del corredo insieme alle ossa degli individui accantonati accanto alla testata della fossa, segno questo che ogni successiva riapertura della tomba comportasse un sommario sgombero e la rimozione del corredo appartenuto all’inumato in precedenza deposto nella stessa fossa.
Quanto detto consente di assegnare la datazione della necropoli al II-III secolo e riflette in realtà il momento di uso più tardo dell’area, pur offrendo anche un terminus ante quem circa l’impianto della necropoli. In un caso è stato accertato l’uso del sudario per avvolgere il defunto, come può essere evinto dai pochi resti di tessuto rimasti attaccati ad una moneta posta in prossimità dell’omero dell’inumato. Poche volte è stato possibile riconoscere i resti di calzari testimoniati dalla presenza di chiodini e di fibule ritrovate ai lati delle tibie. La deposizione del corredo all’interno della tomba ed accanto al defunto documenta la consuetudine del rito del refrigerium largamente attestato peraltro anche nei secoli successivi anche in altri cimiteri sub divo della Sicilia, quali ad esempio quelli di Sofiana e di Salemi.
I corredi erano costituiti prevalentemente da lucerne africane o di produzione siciliana, spesso associate ai vasi in ceramica comune, le cui forme più ricorrenti sono le scodelle, le brocche ed i bicchieri. Insieme a tali oggetti sono state recuperate anche monete, in alcuni casi ridotte a metà ovvero ormai consunte sulla superficie. Mancano gli oggetti ornamentali, quali anellini, orecchini e fibule da veste, mentre nei corredi delle sepolture femminili ricorre l’ago bronzeo. Presenti sono anche gli oggetti vitrei, quali ampolle (fig. 13), e una brocchetta a bocca trilobata (fig. 14).
Un breve cenno va fatto infine sulle lucerne di produzione africana (fig. 15), molte delle quali recano, la firma CIUNDRAC e ATTINI impresse sul fondo. La prima firma, da sciogliere in C(AIUS) IUN (US) DRAC(O), è tra le più comuni a Sabratha ed in Sicilia; la seconda, invece, risulta attestata soprattutto a Cartagine. Le lucerne di produzione locale sono per lo più di buona fattura e testimoniano l’ottimo livello tecnico – operativo raggiunto dagli artigiani siciliani, che tentarono di competere e di contrapporsi agli artigiani stranieri. Su due lucerne compare la sigla AY, abbreviazione del nome Proclos Agyrios.
Va rilevato ancora che lo studio antropologico ha messo in evidenza l’esistenza di patologie legate a carenze alimentari e di calcio.
La necropoli sub divo di contrada Lannari è da mettere in relazione con il vicino insediamento di Piano della Clesia, il cui impianto nella valle dell’Himera testimonia l’occupazione di tale area della Sicilia per lo sfruttamento intensivo del suolo, uso protrattosi ancora nella nostra epoca. (PANVINI-ZAVETTIERI 1993-1994, pp. 851-866 ; PANVINI 2002, pp. 239-240; PANVINI 2003, pp. 46-47).
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