Carmelo Verdi Gli antichi mulini ad acqua della terra di Licodia Edizioni SiciliAntica 2005 PREFAZIONE Gli avvenimenti narrati in queste pagine sono il frutto delle ricerche da me intraprese nell’estate del 1982 allorché ebbi occasione di visitare ciò che resta del mulino di Macchia Noce. Il silenzio e il senso di abbandono che regnavano tutt’intorno, nonché all’interno, mi richiamarono alla mente, quasi per contrasto, il frastuono e l’incessante via vai di tanti anni fa, quando, appena adolescente, dalla vicina Ragoleti si andava al mulino per assistere alle varie fasi della macinazione. Pensai allora di approfondire le mie conoscenze documentandomi, per quanto mi fosse possibile, sull’attività di questi antichissimi opifici attraverso i quali è passata una consistente parte della nostra storia che ha avuto per protagonista il pane. Le notizie riportate, tutte inedite, sono state ricavate da documenti in mio possesso, dagli archivi locali, dall’Archivio storico della Biblioteca di Vizzini e dall’Archivio di Stato di Catania. IL TERRITORIO Prima di entrare nel vivo dell’argomento, ritengo utile dare uno sguardo al territorio di Licodia, nel quale i mulini ad acqua erano dislocati sin dai tempi più antichi. La carta topografica del 1830 evidenzia la vastità dell’agro licodiese che comprendeva ben nove feudi, aboliti poi con la Carta del 1812. Il nostro territorio si estendeva sino a pochi chilometri da Mineo, Vizzini e Monterosso; sfiorava i centri abitati di Grammichele e di Granieri. Con le terre di Bonninga s’incuneava profondamente nell’agro di Buccheri. Le varie contrade erano attraversate dalle vie di comunicazione e dai corsi d’acqua: le une e gli altri indispensabili per l’agricoltura, la pastorizia ed il commercio. Il fiume Acate era il più importante per la lunghezza e per la portata delle acque, ricche fra l’altro di tinche e di anguille. Gli altri corsi, molto più piccoli ma altrettanto vitali, erano: il canale proveniente dal Suffonnato che attraversava le terre di Scirisotto e finiva a Granieri; e il Fiumicello, che da Mangalaviti passa sotto il Colombrello e prosegue a mo’ di confine tra S. Giovanni e Ragoleti, scaricandosi infine nell’Acate. Le principali trazzere, dette regie (alcune delle quali divennero in seguito strade provinciali), erano: quella che da Grammichele raggiungeva Licodia attraverso Mangalaviti; l’altra che da Licodia portava a Vizzini; una terza che da Licodia s’inoltrava per il Casale Tre Fontane; e infine la trazzera della Contea che dal nostro centro abitato, passando per il Bianchetto, conduceva sino a Ragoleti, Camilla e oltre. Molto antica e importante era quella detta del Contado, che partendo dalla Favara, attraversava Scirisotto e Giurfo per raggiungere i centri della Contea di Modica. Questa trazzera regia era adibita al pubblico transito e al trasporto dei prodotti agricoli e del bestiame. Appartenente al Demanio Regio, non era comunale. In base al Decreto del 16 Aprile 1828, al Sindaco venne delegata "la mansione dell’azione di reintegra amministrativa nel caso di usurpazione del suolo di detta trazzera". Le disposizioni del Real Dispaccio 24 Marzo 1811 prevedevano che la sua larghezza si conservasse in metri 37,68. Ma alla fine del secolo la larghezza era ridotta a metri 24, poiché i proprietari delle terre attraversate, a poco a poco ne avevano usurpato parecchi metri. Greggi e armenti l’attraversavano spesso per recarsi ai mercati, alle fiere e alle fide. Su tutti i feudi i cittadini di Licodia esercitavano da tempo immemorabile i diritti dell’esercizio degli usi civici che consistevano nel diritto di legnare, frascheggiare, ghiandare. In una cava di Scirisotto potevano anche cavare pietra per farne gesso, cuocendolo sul posto. Tutti gli usi civici gravanti sugli ex feudi risultavano dalle Istruzioni sui demani dell'11 Dicembre 1841; ed erano elencati nelle decurionali del 20 Marzo, 15 Giugno e 20 Luglio 1842 del nostro Comune. I mulini sorgevano nel feudo Ragoleti (Contrade Paratore e Macchia Noce); e nel feudo di Mangalaviti (Contrade Cassuso, Nuovo e Grammatico). La carta del 1830 riporta il mulino del Paratore, in alto a destra, accanto al fiume Acate. E’ accertata l’esistenza di altri due mulini che nei secoli passati furono attivi, rispettivamente, a Giurfo e a Mangalavite. Non si sa però quando si fermarono, nè per quali cause. Appare strano che nei documenti consultati non si sia trovato alcun riferimento che in qualche modo si possa collegare alla loro presenza nel nostro territorio. La spiegazione più probabile potrebbe essere questa: che durante la lunga attività dei mulini che sono oggetto della presente ricerca, gli altri due avessero già concluso il loro ciclo. Resterebbe da scoprire però il perché. In contrada Mangalavite esiste un rudere che, a giudizio di qualche proprietario del luogo, sarebbe proprio l’antico mulino. La sua posizione fa sospettare che in tempi lontani sia stato soppiantato dalla più intensa attività del mulino Gramatico che, trovandosi più a valle, nella stagione calda e in assenza di piogge poteva sfruttare un maggior volume d'acqua, in quanto ubicato oltre il punto di confluenza del fiumicello che discendeva da Mangalavite con quello che proviene dalla Cava. Quella dei mulini è una storia antica, legata alla necessita della molitura dei cereali. Essi fanno parte di quel patrimonio che i nostri avi ci hanno lasciato e del quale si è quasi perduto il ricordo. In questa epoca per molti versi assurda, sta accadendo che mentre si da ampio spazio all’archeologia e si finanziano ricerche e scavi a largo raggio, si trascurano invece gli aspetti più recenti ma non meno importanti della vita e delle molteplici attività dell’uomo, con questo risultato: che si sa molto sulle antiche civiltà e sugli antichi popoli, mentre si perdono le cognizioni delle cose che sono state usuali per i nostri genitori. Eppure si farebbe ancora in tempo a salvare qualcosa: per esempio, quello che resta dei vecchi mulini. La prima impressione dell’osservatore distratto è che di questi opifici ormai non vi sia più niente. Ma il ricercatore attento che volesse scrutare il nostro territorio, provi a seguire da vicino i corsi d ’acqua che attraversano le nostre contrade. Il Fiume grande (Acate) e il Fiumicello potranno riservargli delle gradite sorprese. Quasi nascosti dagli sterpi, o tra le canne o accanto a qualche aranceto, egli troverà le strutture dei vecchi mulini, con le pareti gravemente lesionate, il tetto sfondato o il "buttigghiuni" che ancora sovrasta il fabbricato ormai in rovina. Della "cammira" si vede appena la volta ad arco; mentre l’acqua spumeggiante che vi passava sotto con immenso fragore, ha lasciato Il posto ai detriti che hanno colmato lo spazio. Qualche fabbrica conserva ancora qualcosa all’interno; ma il tutto si trova in uno stato di deplorevole abbandono. BREVI CENNI STORICI Nell'antichità, allorché l’uomo imparò a lavorare la terra e a farla produrre, i cereali costituirono la parte preponderante della produzione. Per lui si pose il problema della molitura. Ma la sola energia che poteva sfruttare era costituita dalla sua forza muscolare e da quella degli animali ch’egli aveva addomesticato. Perciò il grano in origine venne frantumato a colpi di pietra e, successivamente, nel mortaio a colpi di pestello. Seguirono altri sistemi di molitura, più o meno primitivi, tra i quali un rudimentale sistema di macina rotante costituito da due pietre circolari sovrapposte; quella inferiore fungeva da base, la superiore vi girava sopra. Quando si giunge alla fine dell’Impero Romano, l’uomo ha già imparato a sfruttare in modo razionale una delle forme di energia che la natura gli offre: la forza idraulica. Per far girare la macina non sarà più necessaria la spinta delle braccia degli schiavi o la forza di un animale. La via è tracciata. Si cerca ora il sistema che meglio consenta di sfruttare la forza dell’acqua. Ne consegue una serie di accorgimenti tecnici che hanno lo scopo di ottenere il miglior risultato col minor spreco. II più antico mulino ad acqua era conosciuto col nome di mulino greco o scandinavo. Era formato da un’asse verticale che nella parte inferiore aveva una serie di palette atte a ricevere la spinta dell’acqua; nella parte superiore, attraversata la macina fissa, era solidale con la macina rotante. Seguì, nel primo secolo a.C., un mulino più efficiente, ideato da un famoso architetto romano del periodo di Cesare e di Augusto, di nome Vitruvio, e perciò detto vitruviano, in cui la ruota idraulica era verticale ed era collegata all’asse verticale della macina rotante mediante ingranaggi di legno. Un diverso numero di giri tra macina e ruota idraulica consentiva un migliore sfruttamento dell’energia ed una maggiore quantità di farina per ogni ora. (1) Tuttavia solo nel Medioevo le civiltà mediterranee, grandi consumatrici di farina, cominciarono ad utilizzare il mulino vitruviano e si ebbe una diffusione su larga scala dei mulini, giacché col riconoscimento ufficiale della religione cristiana subentrò il divieto di utilizzare gli schiavi; e anche gli animali furono sostituiti dalla ruota idraulica. Nacque cosi il mestiere del molendino o mugnaio, che si diffuse rapidamente. Determinanti risultarono le caratteristiche dei corsi d’acqua e delle condizioni climatiche del territorio in cui essi si snodavano. L'attività del mulino poteva essere compromessa da un clima troppo rigido dove il fiume poteva essere soggetto al gelo; o dalla scarsità d’acqua che il torrente poteva soffrire nel periodo estivo. Anche lo straripamento causava danni notevoli, come si vedrà in seguito, poiché bloccava la normale quotidiana attività del mulino, con conseguente disagio per chi doveva macinare; e per il danno economico che subiva il gestore. La dove però non esistevano corsi d’acqua, i primitivi sistemi non furono abbandonati. (2) Nacquero anche i primi problemi relativi al diritto di disporre dei corsi d’acqua e alla costruzione di presa (’a prisa) e canalizzazione e alla manutenzione che doveva assicurare il normale funzionamento dell’impianto. Per coprire le spese e ricavare un certo vantaggio, era necessario che il mulino funzionasse a pieno ritmo. Ma nel periodo invernale un’improvvisa piena poteva spazzare via lo sbarramento; oppure per l’abbondanza delle piogge si intasavano le gore. Inoltre bisognava mettere nel conto altri imprevisti, non esclusi quelli di natura fiscale. In epoca molto più recente, per esempio, a complicare le cose giunse la tassa sul macinato, che fu sempre osteggiata dalle popolazioni. Questo balzello si pagava nei diversi Stati in cui era divisa l’Italia. Compiuta l’Unità, si tentò di ripristinare questa imposta sul territorio nazionale. Conclusa la terza guerra d’indipendenza, due anni dopo, nel 1868, il Parlamento "approvava la legge sul macinato nell’intento di pareggiare il bilancio". "Le conseguenze della sua applicazione- si legge in un documento - furono drammatiche; non essendosi provveduto tempestivamente a distribuire i contatori, necessari per misurare la farina e applicare la tassa, molti mulini dovettero esser chiusi e venne a mancare il pane". Scoppiarono tumulti e molte amministrazioni furono costrette a prendere drastici provvedimenti o ad accollarsi l’onere del funzionamento, in attesa di una schiarita. Fortunatamente nel 1880 la famigerata tassa venne abolita. Nelle nostre contrade i mulini ad acqua continuarono a vivere sino agli anni terribili della seconda guerra mondiale e anche oltre. Ma la loro stagione era finita. Il progresso e le nuove tecniche fermarono per sempre le vecchie macine. La diga di Ragoleti, sbarrando il Dirillo con la sua mole possente, divenne la barriera che divideva per sempre il passato dal presente, il vecchio dal nuovo. E anche per l’ultimo, glorioso mulino di Macchia Noce come vedremo, fu la fine. ____________________ 1)In Sicilia non si sa se il mulino meccanico descritto da Vitruvio sia esistito durante la dominazione Bizantina: mentre è certo che esistesse sotto gli Arabi (2) E il mulino fu detto centimulo. dalla forma appuntita delle due macine sovrapposte. IL FIUME GRANDE Il territorio di Licodia sin dall'antichità fu attraversato dal fiume Dirillo, lungo circa quaranta chilometri, alimentato da importanti sorgive che scaturiscono anche dai nostri monti. Le sue sponde sono basse e fiancheggiate da sistemi montuosi per buona parte della sua lunghezza. Pare che il nome Dirillo sia recente. Ma si vuole che non possa nemmeno identificarsi col fiume Acate, benché un suo affluente conservi tuttora il nome di Agàte, esattamente sotto il nostro paese, dove si trovava la pregiata pietra Agata. Nell’ultimo tratto veniva chiamato fiume Greco. (3) I nostri antenati lo chiamavano il Fiume grande perché era l’unico grosso torrente che attraversava le nostre terre.; e per distinguerlo dai corsi d’acqua minori, tra i quali il Fiumicello che scorre sul versante opposto del paese. Nelle sue acque si pescavano "i tinchi, le anguille e la minusa", cioè i pesciolini piccoli, buoni da friggere. Ora le anguille, impedite dall’enorme barricata di cemento a raggiungere il mare e a risalire il fiume, si trovano solo nella poca acqua che, oltre la diga, raggiunge il Mediterraneo. Nel corso dei secoli la presenza dell’uomo fu costante nel territorio bagnato dal fiume. La possibilità di insediarsi nelle immediate vicinanze di un corso d’acqua, era elemento fondamentale per la sopravvivenza. Il Dirillo inoltre attraversava un territorio particolarmente fertile e d’importanza strategica, per la vasta pianura che si apre oltre la linea della diga. La presenza di insediamenti umani lungo il letto del fiume, nell’agro di Licodia, è testimoniata da una necropoli di epoca romana tarda, rinvenuta nel 1971 in corrispondenza della sponda destra del lago artificiale, in contrada Fossa Quadara, con materiale ceramico di probabile fabbrica locale. Un altro insediamento fu presente più a valle, sempre poco distante dal fiume (nel podere del Signor Paolo Caruso), non lontano dalla proprietà del Dottor Roberto Falcone. Stavolta non si tratta di necropoli. I reperti archeologici rinvenuti anni or sono, andati in parte dispersi, comprendevano un notevole numero di grosse giare simili a quella che si trova nell’atrio del Municipio; numerose monete in prevalenza del periodo romano imperiale; un cippo di forma parallelepipeda con segni e lettere e un mortaio conico in pietra nera. Questi due ultimi oggetti si trovano presso la Pro Loco. Questa comunità si era stanziata tra il fiume e la trazzera che scende oltre Macchia Noce. Trazzera che a mio giudizio dovette essere una delle principali vie di comunicazione che attraversavano quel territorio; ed è il prolungamento di quella del Bianchetto e dell’altra che passando per le cave di gesso, va oltre lo Scifazzo. Col diffondersi dei primi mulini, nelle nostre contrade si cominciò a sfruttare la forza idraulica che il Fiume Grande e i corsi d’acqua minori potevano fornire. ________________ (3) P. Solarino. "La Contea di Modica". I NOSTRI MULINI Dei nostri mulini non si sa quasi nulla relativamente al periodo medievale. E’ però legittimo supporre che per soddisfare ai bisogni del casale che sorgeva intorno al castello, qualche mulino dovesse esserci; perché il mulino, insieme con il forno del pane, con la bottega dell’artigiano, con la chiesa e via dicendo, era un elemento indispensabile alla comunità, alla quale assicurava una certa autosufficienza. E poi, in periodo feudale, il feudatario aveva interesse a costruire dei mulini nel proprio feudo, dai quali ricavava un lucro non indifferente, essendo costretti i contadini a farvi macinare il loro grano.(4) C'è di più. Col passare del tempo i baroni avevano usurpato il diritto di costruire i mulini nei corsi d’acqua e nei fiumi dei loro possedimenti. Essendo pertanto i fiumi di loro proprietà, esigevano la gabella sul Molendinum, il mulino ad acqua, che veniva dato in affitto ai mugnai. Il mugnaio, responsabile di tutto, aveva diritto a percepire una molenda che oscillava dalla sedicesima alla ventesima parte della farina. (5) Le prime notizie certe, documentate, risalgono al 1430. Da un atto di donazione di Calcerando Santapau, del 18 Aprile di quell’anno, si ricava che costui nominava il figlio Raimondo signore di molti possedimenti e, tra l'altro, della Terra e del Castrum di Licodia con i feudi di Lalia, Jurfo, Xiri, Mangalaviti, ecc... "et eorum molendinorum " (Archivio di Stato di Palermo, Documenti della famiglia Santapau). Altri riferimenti si riscontrano negli anni 1642 e 1680. Alcuni atti notarili consultati presso l’Archivio di Stato di Catania contengono riferimenti ben precisi ai mulini del Gramatico, del Nuovo e di Ragoleti, conosciuto poi col nome di Macchia Noce. Ricadevano tutti e tre nel territorio del marchesato di Licodia. Alcuni documenti di quegli anni trattano questioni di contabilità, relative a lavori eseguiti in più occasioni. Le persone interessate sono: il gabelloto dei mulini Antonio Compagnino da una parte, Di Martino Giuseppe e Dieli Filippo dall’altra. Dall’atto notarile del Settembre 1705 leggiamo: "… per haver annettato li saj al molino di Ragoleti per giornati N. quaranta di huomini a raggione di tt.2,6 (tt.= tarì) ...... per haver fatto ......consi e ripari al molino del Gramatico, cioè per haver annettato le saje del d. (detto) molino a 12 8bre 1704 ci hanno voluto huomini N.dieci alla raggione di tari dui il giorno si come di detti tt.20 ni appare relazione fatta per l'atti di d. (detta) Corte sotto il 15 8bre 1704 ........... Che in tutto le dette partite fanno la somma di onze tre e tari ventidue, né che se non si facevano li detti consi del modo sopradetto, li d.i (detti) molini non potevano macinare per 3,22’’ (tre onze e ventidue tari ). Da altri documenti dello stesso anno si legge ancora: "... per N. dui circhitelli di ferro tarì quattro. Per haver consato un spico al molino del Nuovo sotto li 5 Marzo tarì 4, per il fuso di detto molino tt.12, per un spico consato al molino del Nuovo sotto li 11 Maggio tari 12". Francesco Di Martino è l’affittatore generale; gabelloto è sempre il Compagnino. __________________ (4) Il monopolio dei mulini e dei forni fu introdotto in Sicilia dai Normanni dopo la conquista dell'isola, avvenuta nel secolo XI. Carlo I d'Angiò accentuò il peso di questo balzello. Egli costruiva mulini e forni, nei quali i sudditi erano obbligati a macinare il grano e a cuocere il pane. Spesso li dava in fitto con altre gabelle. Solo il Clero, come vedremo più avanti, sfuggiva a questa ferrea regola, in virtù dei suoi privilegi. (Michele Amari, "Storia dei Musulmani di Sicilia", Vol. 3°, parte I, Capitolo X, pag., 334 – R. Prampolini Editore, Catania 1937 – XV); e "La Guerra del Vespro", capitolo 4°). (5) In un diploma del 1168 si legge, tra le altre cose, che i catanesi dovevano pagare, nei mulini, una molenda di un tumulo di frumento e un mondello di farina per ogni salma. (R. Gregorio, "Considerazioni…..", Libro I, cap. V). LA GABELLA DI UN GRANO Il 23 Novembre 1642 Don Scipione Scarlata e Interlandi, Barone di Santo Stefano, stipulò un contratto di compravendita presso il notaio Vincenzo Morgano di Licodia, in virtù del quale acquistava, sulla gabella della macina, un grano (moneta spicciola siciliana) sopra ogni tumulo di frumento macinato nei mulini della Terra di Licodia, con facoltà di poter egli, e i suoi eredi e successori, esigere liberamente il detto grano dal gabelloto della macina; come pure di poterlo gabellare ad altre persone o farlo esigere alla stessa maniera con la quale l'Università (Città) di Licodia esigeva cinque grana per ogni tumulo di frumento sulla gabella della macina. Alla sua morte, la gabella del grano uno fu ereditata da Don Giacomo Interlandi Barone del Casale e del Corvo, territorio di Militello. Quando nel 1703 costui mori, rimase erede il nipote Don Pietro Angelo Interlandi e Santapau, Barone della Favarotta e di Catalfaro (6), quale fidecommissario del fu Scipione Scarlata, primo acquisitore di quella gabella. Quattro anni dopo, nel 1707, egli indirizzava una lettera al Tribunale del Regio Patrimonio di Palermo, nella quale lamentava che avendo comprato nella Terra di Licodia un grano sopra la gabella della macina per ogni tumulo di frumento, con gli stessi privilegi che godeva l’Università della suddetta Terra per altri cinque grana per tumulo, i Magnifici Giurati e i Gabelloti, disattendendo gl’impegni previsti dal contratto, avevano percepito soltanto la gabella loro spettante, di onze 492, per cui il Barone reclamava la rata relativa alla gabella del suo grano, per giunta al netto dagli interessi di Collettoria che i gabelloti e i collettori invece pretendevano di detrarre dalla sua rata. Egli precisava che la gabella di detto grano doveva impiegarsi in soddisfazione dei legati e di altre opere pie lasciate dal Barone Scarlata. Perciò egli supplicava il Tribunale affinché intervenisse d’autorità nei confronti dei Giurati e di tutti i singoli ufficiali di Licodia, per far pagare la rata di quel grano e senza alcuna riduzione. Nella risposta pervenuta da Palermo, preso atto del contenuto dell’esposto, facendo riferimento alla clausola contenuta nel contratto di acquisto del 1642, si ordinava ai Giurati di far pagare all’ Interlandi, dai gabelloti e collettori, il grano spettante sopra ogni tumolo di frumento macinato, nella medesima forma con la quale essi riscuotevano la gabella di grana cinque per l’Amministrazione di Licodia. La qual cosa si doveva praticare anche in avvenire, annualmente, dai gabelloti e collettori pro tempore, così da assicurare al Barone il puntuale pagamento delle rate della somma maturata nell’arco di ogni anno. La lettera, datata 23 Ottobre 1707, portava le firme di Don Carlos Felipe Antonio Spinola, Colonnello, e dei Maestri Razionali Ioppulo, Colonna, Branciforti, ecc.... Malgrado ciò, non accadde nulla. Sicché il Barone Interlandi nel gennaio del 1708 rinnovò la protesta indirizzando un’altra lettera a Palermo, nella quale venivano riassunti gli stessi motivi per i quali aveva già scritto l'anno precedente. Lamentava altresì come i Giurati di Licodia sotto vari pretesti non avessero dato esecuzione agli ordini pervenuti da Palermo nell’ottobre del 1707. Aggiungeva di essere ormai creditore di molte somme giacché i passati gabelloti non avevano corrisposto quanto gli si doveva, mentre anche per l’annualità presente non aveva ricevuto alcuna rata. Si degnasse pertanto detto Tribunale richiamare chi di dovere per soddisfare interamente il credito del supplicante costringendo, se necessario, i Giurati a risolvere personalmente la spinosa faccenda. II 18 febbraio il Tribunale palermitano trasmise l’istanza all’Ufficio capitaniale di Vizzini unitamente con le disposizioni del caso. Don Nicolò Platamone Capitano e Delegato della Città di Licodia, scrisse in termini molto duri intimando ai Magnifici Giurati don Tiberio Morgana, don Pietro Morgana e don Francesco Gaudioso "...affinché fra il termine di tutt’oggi che corrino li ventuna del corrente mese Marzo 1708 habiano, vogliano et debiano, et ogn’uno di loro habia, voglia e debba esequire et avere esequito inviolabilmente quelle lettere ottente dal detto di Interlandi sopra il di 23 8bre passato 1707 esecutoriate per via di detto Tribunale del Regio Patrimonio ........ continenti di far pagare detti gabelloti e collettori della Gabella della macina dell’anni passati di detta Terra di Licodia a detto Barone di Interlandi quel grano uno sopra ogni tumulo di fromento che si macina in detta Terra, nella medesima forma e con l'istessi privileggi che l’Università l’esigge li altri grana cinque per tumulo; e detti gabelloti e collettori coertionare e costringere; come ancora li gabelloti e collettori presenti di questo anno 1708 che pagassero detto grano effettivamente sopra ogni tumulo di fromento per quanto viene ad importare secondo detta gabella ........... Alli detti gabelloti e collettori presenti fare continuare alla soddisfazione di detto grano uno sopra ogni tumulo di fromento a detto Interlandi in perpetuum per non permettersi che venghi detto Barone altra volta impedito per l’esattione di detto grano di macina; e questo sotto la pena di onze cento per ogni uno di loro applicata al Regio Fisco di detto Tribunale del R.(Regio) P.(Patrimonio) tutte le volte non esequiranno dette lettere sopra espressamente ottente ad iustum di Interlandi ........... Con pagare ancora de proprio detto grano uno se non pagheranno detti gabelloti e collettori con tutte l’ispese fatte ed a farsi e per la spedizione di dette precitate lettere delegazionali et di altre spese .......... Et intima al Magn.co Giurato il più giovane ..... quatenus (affinché) fra il termine di giorni otto che s’habia, voglia e debia presentarsi et haversi presentato in persona inante di detto Tribunale per havere a legitimare la causa di non haver legittimamente puntualmente eseguito l’ordini ....," Firmato: Platamone Capitaneus et Delegatus in causa. Ce n’era abbastanza per scuotere l’indifferenza dei Magnifici Giurati! La loro risposta fu pronta e circostanziata. Nella lunga lettera diretta al Tribunale del Regio Patrimonio per tramite del Capitano di Giustizia, affermando costoro di essere stati chiamati in giudizio incolpevoli, confutavano le tesi della controparte asserendo che dalla data in cui fu stipulato il contratto a tutt’oggi, e perciò per oltre sessant’anni, mai lo Scarlata e suoi habenti ius et causam chiesero ai Giurati l’osservanza del privilegio in virtù del quale quel grano uno poteva essere aggregato e ingabellato unitamente con i grana cinque spettanti all'Università di Licodia su ogni tumulo di frumento macinato nei mulini di questa Terra, per esigere poi dai gabelloti la rispettiva rata. E negli anni 1706 e 1707 quel grano veniva pagato separatamente, o dallo stesso gabelloto o da altre persone, sempre all’insaputa dei Giurati e perciò senza alcun loro intervento. Pertanto, per i motivi sopra esposti, essi non potevano rispondere di quanto era accaduto negli anni passati e, a dimostrazione delle loro buone ragioni, allegavano una documentazione comprendente alcune testimonianze atte a dimostrare la veridicità delle loro argomentazioni, qui di seguito riportate. Dagli atti del Notar Giovanni Antonio Iancunzo della Città di Militello Val di Noto, risultava che nell’anno 1703 don Giacomo Interlandi, per mandato di don Pietro Angelo Interlandi suo nipote, ingabellò a Tommaso Lo Blanco della Terra di Licodia la gabella di un grano sopra ogni tumulo di frumento macinato dalla popolazione della Terra medesima, con pagamento dal primo di settembre sino a tutto il mese di agosto 1704. Per la gabella del predetto grano il Lo Blanco s’impegnava a pagare al netto la somma di onze ottanta in moneta contante, suddivisa in rate mensili. L’anno dopo il Barone don Pietro Angelo dava la stessa gabella a mastro Francesco Lo Blanco della Terra di Licodia per onze sessantasei che il gabelloto promise di pagare di quadrimestre in quadrimestre con rata posticipata. Dagli atti del Notaio Antonino Astuto di Licodia si rilevava che nel 1705 don Girolamo Interlandi, Barone del Bosco di S. Cono della Città di Caltagirone cedette a don Giuseppe Vitali della Terra di Licodia la gabella del grano uno per la somma di onze cinquantotto, col patto che onze 23 fossero date a don Ferdinando Ventura, Barone di Curulla di Monterosso, in quanto marito di Donna Angela Mugnos parente del fu Scipione Scarlata; le rimanenti 35 onze dovevano essere consegnate a don Pietro Angelo Interlandi fidecommissario dell'eredità; o a persona di sua fiducia in Licodia, "de tertio ad tertium posposito tempore", cioè in quadrimestri posticipati. (Si è visto che tutti i contratti avevano decorrenza dal mese di settembre. In Sicilia decorrevano dal primo settembre le annate agrarie, i registri degli uffici e dei notai, le cariche pubbliche e l’indizione, antichissimo sistema di misurazione del tempo, che consisteva in un ciclo di quindici anni progressivamente numerati). Un’altra testimonianza a discarico dei Giurati fu resa dal Notaio Giuseppe Vitali. Cosi’ egli scriveva: "In tutta fede per me infrascritto Detentore dei libri di questa Università di Licodia,...... havendo cercato, visto e diligentemente osservato tutti li registri delle liberattioni delle Gabelle di detta Università dove sogliono tutti annotarsi le liberattioni incominciando dal Mille Seicento Ottanta, che sono in poter mio sino alla presente giornata ........ haversi sempre dalli Spett.li Giurati passati ingabellati solamente li grana cinque per ogni tumulo di macina d’essa Città, senza mai descriversi annotarsi o apparere annotata la gabellatione o liberatt.ne del grano uno spettante all’heredità del quondam Scipione Scarlata, onde in fede del vero ho fatto la p.nte (presente) hoggi che corrono li venti marzo prima indizione 1708. Sotto scritta di mia propria mano..." I Giurati di Licodia a conclusione della lunga missiva così ben documentata, s'impegnavano tuttavia per il futuro a far aggregare il grano dell'Interlandi ai cinque grana della loro Università; far pagare ai gabelloti della macina la rata sul totale di sei grana e ripartirla in proporzione. Non tacendo però che questa operazione poteva risolversi in un danno giacché il gabelloto dovendo pagare la gabella di un grano al netto dei diritti di collettoria e guardia, poteva rifarsi sui cinque grana dell'Università, con un danno per quest’ultima e per il Regio Fisco. Ciononostante, "attendendoni gli ordini opportuni ne restiamo noi dispostissimi ad esequire ogni minimo cenno delli comandi di V.E.– Le facciamo humilissimo inchino e le basciamo l’eccellentissimi piedi. Humilissimi servi D. Tiberio Morgano Giurato, D. Pietro Morgano Giurato, D. Francesco Antonio Gaudioso Giurato." Tuttavia si può affermare che al Capitano di Giustizia di Vizzini le argomentazioni dei Giurati dovettero apparire deboli. Quando egli inoltrò l’esposto a Palermo, allegò questo giudizio che sembra quasi un’anticipazione della sentenza con la quale probabilmente il caso fu chiuso. Egli scriveva che vi erano molte parole inutili e lontane dalla verità; aggiungendo, quasi a volersi scusare, che comunque il ricorso doveva seguire il suo cammino, essendo egli un semplice esecutore di ordini del superiore Ufficio. "Multa sunt verba partis in presente supplicatione, et a veritate devia, et nihilominus currat in iuntio, stante quod ego sum merus esecutor litterarum E.S. et Tribunalis Regij Patrirnonii". D. Nicolaus Platamone Capitaneus et Delegatus. Die vigesimo nono martis 8. Ind.nis 1708. _________ (6) In quel tempo don Pietro Angelo risiedeva già a Caltagirone. Perciò è probabile che i discendenti di quel ramo della nobile famiglia che aveva la sua residenza a Licodia, si siano trasferiti nel centro calatino verso la fine del sec. XVII. Infatti le ceneri del Barone don Pietro Angelo (forse nonno del nostro omonimo), morto nell’anno 1640, riposano nella nostra Chiesa del Carmine dove sono sepolti anche i resti del suo predecessore. I PRIVILEGI DEL CLERO Per molti secoli gli appartenenti al foro ecclesiastico usufruirono sempre di molti benefici e privilegi: in particolare, della immunità dalle tasse. Essendo franchi, non pagavano l’ammontare dell’imposta sul prezzo dei generi sottoposti a gabella. Se, per esempio, nel Seicento un chierico acquistava un quartuccio di vino, anziché pagarlo cinque grani lo pagava quattro, poiché detraeva la tassa che ammontava a un grano. Questa franchigia si estendeva alle attività e a tutti i generi sottoposti a gabelle baronali: carne, farina, olio, vino, pesce e cosi via. Tutte le persone ecclesiastiche lottavano e protestavano allo scopo di ottenere la "polisa" e di allargarne la validità. Ovviamente, tutto ciò avveniva in omaggio alla Religione della quale essi erano i legittimi rappresentanti; e non perché gli ecclesiastici dovessero far fronte a difficoltà di carattere economico. Che anzi le condizioni economiche di molti religiosi poggiavano su solide basi. C’era poi chi investiva e chi s’industriava in altro modo per consolidare il proprio capitale. Nel 1708 il sacerdote Don Salvatore Di Martino, Vicario della Città di Licodia, scrisse ai Giurati di Vizzini, per avere la gabella del ’Fegho delli Mogli’ di quel territorio. Egli offriva 484 onze per tre anni: onze cento per l’anno presente, così suddivise: onze 66 e venti tarì dal 1° Maggio, le rimanenti 33 e dieci dal primo settembre. Per gli altri due anni, 192 onze annuali da pagarsi in tre terziarie anticipate: una al primo gennaio 1709, l’altra al primo maggio e la terza al primo settembre; e cosi per il 1710. Per l’anno in corso, infine, chiedeva il feudo "in erba et a majsare"; mentre per gli altri due anni lo voleva per tutti gli usi. La proposta non venne accettata. Fra i tanti avvenimenti che costellarono la lunga e travagliata vita dei mulini di Licodia, merita di essere ricordata la disputa sorta, nel Settecento, tra il Clero e l’Arrendatario (ossia l’appaltatore delle gabelle, comprese quelle dei mulini), il quale si rifiutava di riconoscere agli Ecclesiastici gli antichi privilegi di cui essi godevano nel territorio dello Stato. Le prime avvisaglie si erano avute già nell’ottobre del 1721. Il sacerdote don Domenico Iudica aveva mandato ad uno dei mulini tumoli otto e mondelli due di frumento. Per una metà aveva ottenuto la cedola, o poliza, del gabelloto; mentre per i rimanenti quattro tumoli era accaduto che il garzone, dimenticando di andare prima dal gabelloto per l’autorizzazione scritta, aveva portato i sacchi direttamente al mulino allegando il solo polizino firmato dal sacerdote. Il revisore, rilevata l'irregolarità, confiscò "li detti sachi e si li macinò, e se li prese come fossero stati robba propria". Il sacerdote si rivolse subito al Vicario Foraneo di Licodia, allo scopo di ottenere la restituzione del maltolto, sottolineando la dimenticanza del servitore. II Vicario sottopose il caso alle autorità, lamentando altresì gli abusi perpetrati contro gli Ecclesiastici, i quali non potevano macinare il frumento se non dopo aver ottenuto la cedola dal gabelloto. Quest’ultimo, inoltre, pretendeva limitare il consumo mensile di frumento a tumoli sei per i sacerdoti e a quattro per i chierici, con grave pregiudizio per la dignità del Clero. In verità gli Ecclesiastici si ritenevano lesi nei loro diritti in quanto che erano convinti, e lo sostenevano con forza, che da tempo immemorabile godevano della franchigia della mezza molitura e della libertà ecclesiastica che, in deroga all’obbligo per tutti i sudditi di macinare nei mulini dello Stato, consentiva loro di andare a molire nei mulini extra territorio dove, oltre la franchigia, venivano trattati con particolare rispetto. E siccome nel territorio di Licodia gli affittuari o i gabelloti che li rappresentavano, erano di diverso parere, questi contrasti si trascinarono per molti anni, fino a quando, nel 1768, avendo il Principe Ruffo dato in affitto lo Stato al Barone Inguaggiato, la situazione precipitò. Il clero locale, allora, che fondava le sue pretese su di un ius non scritto (in quanto accordato oralmente dal Principe), su istanza del Procuratore, Rev.do Don Carlo Antonio Blanco, convocò un Capitolo probatorio allo scopo di ascoltare dei testimoni degni di fede. Il Capitolo, presieduto dal Vicario Rev. Marco Antonio Vitali, il 26 aprile 1768 si riunì nella Curia vicariale. II primo ad essere ascoltato fu Giuseppe Lo Blanco di anni 78, il quale, dopo il giuramento di rito, disse di ricordare che negli anni 1726 e 1727 fu fittaiolo dei mulini e, volendo obbligare i sacerdoti a molire in questo Stato, fece ricorso al Principe di Linguaglossa affittatore generale del territorio, affinché costoro fossero richiamati al dovere dal Vescovo di Siracusa. Ma monsignor Ignazio Riggio, allora Vicario Generale di Sede Vacante, fece sapere al Principe che non poteva costringere "li suoi Chiesastici" a rinunziare "al privilegio che sempre hanno goduto ab immemorabili di andare a molire in qualsivoglia molino di alieno Territorio". La stessa risposta fu data al Giudice Deputato Don Gregorio Castelli. Venuto a più miti consigli, il Lo Blanco trattò l’affare bonariamente, promettendo agli Ecclesiastici che, se fossero andati a molire nei mulini dello Stato, oltre a "farli franchi della solita mezza molitura, l’avrebbe fatto ben servire". Egli inoltre ammetteva che "sul piede dell’antichissima consuetudine", il Clero aveva sempre mantenuto la sua libertà. Nello stesso giorno venne ascoltato Emanuele Accardo, di anni 52, il quale riferì che il defunto genitore don Gioachino ebbe più volte in gabella i mulini dello Stato di Licodia e mai poté impedire che i reverendi, per la libertà di cui godevano, si recassero a macinare fuori territorio. E che, avendo fatto ricorso al Vescovo di Siracusa Monsignor Trigona, nulla ottenne. Testimoniò poi mastro Filippo Giuca, anch’egli "huius Civitatis Licodiae", di anni 66, che tenne per otto anni la gabella, nel tempo in cui l’affitto generale dello Stato si faceva per conto del Signor Principe Padrone, al quale egli si rivolse più volte, fin quando il Principe, Don Guglielmo Antonio Ruffo, nel 1752 venne a Licodia e intimò un confronto tra gli ecclesiastici e il gabelloto. Intese le ragioni, ritenendo di non poter privare il Clero della goduta libertà, ordinò al Giuca di farlo franco della mezza molitura come nei mulini forestieri e di servirlo bene. Il giorno dopo fu il turno di Vincenzo Giuca, di anni 44, inteso la Pupa. Egli riferì che il padre, mastro Biagio, che ebbe in affitto i mulini, mal sopportando che gli ecclesiastici andassero a molire fuori territorio, si rivolse al Vescovo Monsignor Testa, ma senza esito. Il 30 aprile rese la sua deposizione Pio Falcone di anni 54, inteso Valata, il quale confermò che negli anni in cui ebbe in gabella i mulini, cioè dal 1762 al 1766, i prelati macinarono sempre nei mulini forestieri, malgrado le sue rimostranze e i ricorsi fatti all’Affittatore generale e alle autorità ecclesiastiche. Anche il padre don Giuseppe, gabelloto molti anni prima, era solito dire che nessuno poteva contestare agli ecclesiastici il diritto di molire dove volevano. E solo trattandoli bene e accordando loro la franchigia della mezza molitura, ne aveva convinto alcuni a servirsi dei suoi mulini. La sfilata dei testi continua. Tocca ora a mastro Filippo Brullo, di anni 68, fare la sua deposizione davanti al Capitolo. Anch’egli "sape ed ave inteso dire da persone antiche", specialmente da ex gabelloti, le stesse cose già ascoltate in precedenza. Dice ancora di aver sempre saputo che il Clero non può sottostare alle leggi dei secolari; poiché i prelati "sono franchi di tutte le gabelle si’ Baronali che Reali, a riserba di quella del gius dominicale per esser il fondo proprio del Barone, ed essendo le gabelle de molini una delle gabelle baronali"- Al termine delle deposizioni, il documento fu firmato dal Clerico Don Andrea Stillanti, come Magister N. (Notari) us. Stando così le cose, viene spontaneo chiedersi come mai nel nostro Stato si negassero al Clero i privilegi (primo fra tutti quello della franchigia della mezza molitura, con una molenda di un 32° invece del solito 16°) che venivano regolarmente accordati fuori del territorio. Concorrenza, forse? Malgrado tutto, le continue pressioni esercitate nei confronti del Vescovo dovettero sortire, per una volta, il loro effetto. Infatti il Vicario Don Marco A. Vitali ricevette l’ordine di ammonire il Clero affinché macinasse nei mulini di Licodia. Tuttavia, in risposta all’imposizione, il Reverendo Vitali scrisse l'undici maggio a Monsignor Vescovo confutando l’affermazione del Barone Inguaggiato secondo il quale mancavano i documenti comprovanti la decisione del Principe Scilla di accordare al Clero i noti privilegi; e dubitando addirittura che lo stesso avesse potuto disporre cosa tanto pregiudizievole agl’interessi dell’Arrendatario. Nella lettera si legge ancora che il Vicario manderà a Siracusa i documenti del Capitolo probatorio; e che nel frattempo, avendo scritto a Don Paolo Morgano che fu Giurato nel 1752 e perciò presente al contraddittorio tenutosi alla presenza del Principe tra gli Ecclesiastici e il gabelloto mastro Filippo Giuca, costui aveva risposto asserendo di ricordarsi perfettamente della determinazione fatta "da detto Eccellentissimo Signor Principe a favore di detti Ecclesiastici"- "A tutto ciò – prosegue il Vicario - aggiunga V. Em. Rev.ma la Legge scritta per questa sua Diocesi nel Sinodo del fu’ Ill.mo Monsignor Vescovo di Siracusa Don Giovanni Antonio Capiblanco, dove al Capo settimo pagina 266 si legge: EANDEM NON EFFUGIUNT CENSURAM DINASTE, SEU BARONES, VEL EORUM MINISTRI, QUI CLERICOS, VEL EORVM FAMULOS, AUT ALIOS EORUM NOMINE DETINENT, ET PROIBENT NE ALIIS PANEM COLLOCENT, ET DECOQUANT IN LOCIS, QUAM IN SUORUM DOMINORUM FURNIS, NE AD PRISTINUM PERGANT AD TRITICUM MOLENDUM NISI IN DOMINI MOLENDINIS, NE OLIVAS TERANT, ET CONTUNDUNT NISI IN MOLIS OLIVARIIS SEU TRAPPETIS DOMINORUM, H(a) EC ENIM OMNIA MAXIME ECCLESIASTICAM LEDUNT LIBERTATEM. POSTREMO CURATI ET VICARII, PROCERES, DOMINOS, ET MINISTROS SECULARES DE P(o) ENIS SUPRA MEMORATIS, ALIIS QUE NOSTRO DECERNENDIS ARBITRIO FACIANT CERTIORES. PENA SUPRAD.TA IN CAPITE ANTECEDENTI EST EXCOMUNICATIO IPSO FACTO INCURRENDA. (In breve: chiunque proibisca ai chierici, o loro dipendenti, di cuocere il pane o di macinare il grano o di spremere le olive se non nei forni, nei mulini e nei frantoi del proprio Stato, lede gravemente la libertà ecclesiastica e perciò incorre, ipso facto, nella scomunica) – Seguono ulteriori chiarimenti e precisazioni. La missiva si chiude con la firma dell’Umilissimo servo e suddito M. A. Vitali. A sua volta il Vescovo, dopo aver preso visione dei documenti rimessigli, torna a scrivere al Vicario, rassicurandolo del suo interessamento. Difatti ha già scritto al Signor Barone Inguaggiato rappresentandogli le fondate ragioni del Clero; e ne attende risposta "col prossimo procaccio di Palermo". S’assicuri adunque -conclude- che non mancherò al mio dovere. Tuttavia la disputa si trascina tra le reciproche accuse, che fioccano dall’una e dall’altra parte, assumendo in certi momenti toni decisamente accesi. L’affittatore è irremovibile: gli ecclesiastici devono macinare nei mulini del territorio e senza franchigia! Il nuovo Vicario Foraneo, Rev.do Don Vincenzo Falcone, rompe gl’indugi e nel settembre dell’anno successivo scrive al Principe, il quale gli risponde da Scilla in data 27 ottobre. Egli rileva, con sommo rincrescimento, le novità relative alle franchigie che l’Inguaggiato si ostina a negare al Clero e promette di scrivere subito al Signor Presidente di Palermo affinché col suo intervento, impedisca che gli Ecclesiastici vengano molestati ulteriormente. In chiusura: Affez.mo sempre. Il Principe di Palazzolo. Da Palermo, il Presidente Stefano Airoldi scriveva al funzionario di Vizzini, Giovanni Filippo Gandolfo, per riferirgli di aver ricevuto un esposto dal Clero di Licodia, nel quale si lamentavano le pretese di mastro Carmelo Rinaldi "di volere che tutti l’Ecclesiastici andassero a molire ne molini di q.to Stato, ed a pagare per intiero la molitura, nella stessa conformità che la pagano i secolari; e ciò -continua l’Airoldi- nonostante la risoluzione del Sig.r Principe mio cugino e del Prelato di q.lla Diocesi, di essiggersi metà di tale molitura"- Pertanto gli raccomanda di dare tutte le necessarie providenze di giustizia, facendo rispettare le disposizioni di cui sopra. Le missive s’incrociano a ritmo continuo, ma la situazione ristagna. Si aggiunge anzi un altro sgarbo dell’Affittavolo, l’ostinato barone palermitano, il quale procrastina il pagamento delle 154 onze e 20 tari a favore dei Reverendi Don Vincenzo Falcone e Don Pietro Vacirca, legatari del fu Canonico La Russa, di cui si trovano fidecommessi. II Principe, informato dagl’interessati, manifesta tutto il suo rammarico per "l’attrasso" della somma dovuta; approva tutte le istanze fatte e li consiglia di rivolgersi ancora a Palermo, a suo cugino, per essere soddisfatti. Dice di non comprendere il comportamento del barone sulla franchigia della mezza molitura, avendola egli accordata al Clero molto tempo prima del corrente affitto. Promette infine di accellerare la sua venuta a Licodia, "col Divino favore", per sistemare di persona ogni cosa. La lettera, scritta a Scilla, porta la data del 23 marzo 1770. Intanto il Capitolo, riunitosi d’urgenza nella Curia, stende un particolareggiato memoriale, da inviare al Principe Ruffo, dove vengono annotati tutti gli avvenimenti relativi alla gravissima situazione venutasi a creare nella ’Stato di Licodia tra l’affittuario dei mulini e il clero. Situazione che si trascina da troppo tempo ormai e che necessita di una soluzione definitiva. Fermissimi nel perorare la loro causa, gli Ecclesiastici si rifanno per l’ennesima volta alla loro antichissima consuetudine di molire liberamente nei mulini fuori territorio. Tant'è vero che nel tempo in cui lo Stato si trovava in Deputazione, mai i Giudici Deputati poterono obbligarli a rinunziare a questo sacrosanto diritto; ne poté obbligarli il Principe Padrone e i suoi Procuratori generali, quando lo Stato di Licodia cessò di essere sede di deputazione. C’è di più . Quando nel 1752 il Principe Padrone, trovandosi a Licodia, ascoltò le ragioni dei Reverendi e del fittavolo dei mulini, alla presenza del Giudice Consultore Dottor Lucio Caffarelli, dovette riconoscere il privilegio della libertà ecclesiastica, di andare fuori territorio. Tuttavia costoro si dissero pronti a macinare nei mulini del territorio, purché serviti bene e fatti franchi della mezza molitura. Così le cose andarono lisce sino a quando nel 1768 affittò le gabelle dello Stato il barone Inguaggiato. Subito il suo procuratore don Ascanio Vitali, con la connivenza del fratello, Rev. Vitali, allora Vicario, incominciò a molestare il Clero pretendendo assoggettarlo all’intera molitura. Le continue proteste fatte al Vescovo, determinarono le dimissioni del Vicario e la nomina a successore del Rev. Vincenzo Falcone. Ciononostante, dopo una breve tregua, ricominciarono le vessazioni contro i sacerdoti; e il sovrastante dei mulini, mastro Carmelo Rinaldi, prese l’intera molitura dai sacchi del Reverendo Vicario, ordinando ai mugnai di fare altrettanto con tutti i religiosi, oppure che levassero l’acqua ai mulini. Malgrado le violenze subite, rimase infruttuoso un passo fatto dal sacerdote Lazzara presso il Magnifico Secreto. Invitato il Clero a comparire innanzi al Giudice e all’avvocato, esibì tutta la documentazione. Ma il Presidente, avendo appreso l’ormai prossimo arrivo del Principe, preferì non intromettersi nella causa, lasciando le cose così com’erano. Nella parte finale del memoriale si supplica il Principe di riconfermare al Clero i privilegi e di obbligare il Rinaldi a restituire il frumento indebitamente usurpato. Nell’estate del 1770 giunse finalmente a Licodia il Principe Ruffo. Con la sua presenza autoritaria l’annosa vicenda ebbe così termine. Agli Ecclesiastici venne fra l’altro riconfermata la libertà di macinare "in molini esteri". Ma non tutte le decisioni prese dal Principe vennero poi rispettate: la franchigia della mezza molitura fu ancora una volta negata dai gabelloti! Le due lettere che si riportano integralmente, indirizzate ambedue al Clero, mettono bene in chiaro la situazione. " Rincrescendoci molto il sentire che tutt’oggi il Rev.do Clero venghi perturbato dall’Arrendatario di questo Stato nella franchiggia della medietà del diritto delle moliture da più’ tempo da noi accordata, e dal medemo goduta, e sul piede di tale esecuzione molto prima del suo contratto pratticata, lui ne riporti l’arrendam.o, perciò il Mag.co Segreto, come ogn’altro Ufficiale di questa, non permettano che venghi all’Eecclesiastici per d.a Franchiggia inferita veruna molestia, anzi loro nella medema garentiscano, ed in caso di retinenza dell’Arrendatario e sue persone sommesse, non trascurino di dare quelle providenze, che convengono di giustizia, per non darsi luogo a tale indoverosa novità. Licodia 28 Luglio 1770. Il principe di Palazzolo. Pres.r exeq.r reg.r et stet penes acta de Albo Secretus. Die Trigesimo Julij 3 Ind. 1770. (Sia presentato, reso esecutivo, registrato e stia presso gli atti del Segreto Albo. Trenta Luglio terza edizione 1770) – Ill.mo e R.mo Sig.r Vicario For.o D. Vincenzo Falcone -Licodia- "In rapporto di quanto V.S. Ill.ma, e R.ma con suo riverito Biglietto mi richiede in ordine a sapere la finale risoluzione di Giuseppe Accardo attuale conduttore de molini di questo Stato, se voglia, o no contentarsi far godere la franchiggia della mezza molitura alli RR. Ecclesiastici giusta la disposizione del nostro Ecc.mo Sig.r Pnpe Padrone, o lasciarli nella libertà d’andare a molire nei molini fuorestieri, sono a riscontrarla, che fatto chiamare la terza volta al divisato di Accardo si è dichiarato contentarsi di buon piacere, che li RR. Ecclesiastici restassero nella loro piena libertà d’andare a molire ove ci piace nelli molini fuori Stato, non darci la franchiggia surriferita, in riguardo che teme poter essere defraudato. Ed è quanto devo significare a V.S. Ill.ma e R.ma, mentre esibendomi prontissimo a tutt’altro, che potrei servirla, le b. (bacio) le sante mani; le fo dev.ma riverenza e resto di V.S. Ill.ma e R.ma. Licodia Corte Seg.le 26 Settembre 1770 Div.mo et obli.rno Servo Andrea Albo Seg.o PROPRIETA’ DEI CAFFARELLI, Con la soppressione del feudalesimo, negli ex feudi subentrarono nuovi proprietari i quali vennero in possesso dei mulini di cui sopra. Tra costoro, nel nostro territorio emerse la nobile famiglia Caffarelli. II barone Gioacchino Caffarelli, proprietario di vasti possedimenti al di là e al di qua del Faro, visse nella seconda meta del Settecento. Alla sua morte, il figlio Gaetano, unico erede, eredito tutti i suoi beni. Nel 1864 il barone Gaetano, che aveva in moglie Celestina Bellisario (deceduta nel 1895), morì a sua volta e con testamento olografo del 25 Dicembre 1863 lasciò in eredita il suo patrimonio ai nove figli: Gioacchino, Raimondo, Elisabetta, Enrichetta, Francesca, Emilia, Luigia, Giuseppina e Amalia! Tra i beni da loro posseduti in Sicilia, si elencano qui di seguito quelli compresi nel territorio di Licodia, tralasciando le voci di minore entità: 1) Terreno Cassuso, del valore di lire 977,90- 2) Terreno Nuovo, " " 2.896,19- 8) Terreno Scordino, " " 7.178,88- 4) Macchia della Noce, " " 14.328,95- già con un reddito imponibile di ducati 191, pari a lire 811,55. 5) Terreno Molinazzo, del valore di lire 18.075,09 Aveva un reddito imponibile di ducati 35 e grana 1, pari a lire 148, 74. 6) Terreno Paratore, del valore di lire 9.018,94- 7) Terreno Cascio, " " 1.097,21- 8) Un magazzino nel Piano s. Domenico. (Occupava la superficie sulla quale oggi sorgono il palazzo Agnello e il bar annesso). 9) Canoni diversi sugli ex feudi di Ragoleti, Sciri di Sotto, Sciri delle Donne, ecc... Le terre Cascio, Paratore, Macchia della Noce e Molinazzo, iscritte nei Registri delle Imposte di Militello Val di Catania, risultavano in testa alla Agenzia Giudiziaria del Principe di Scilla. Da ciò si deduce che prima di passare in proprietà ai Caffarelli, esse facevano parte del patrimonio dei Ruffo, eredi dei Santapau. Agli eredi Caffarelli appartenevano inoltre cinque mulini ad acqua sui quali gravava una soggiogazione di onze 16, tarì 25 e grana 10, dovuta agli eredi del Principe di Partanna. I cinque mulini si trovavano nelle contrade Cassuso, Nuovo, Grammatico, Macchia della Noce e Paratore. Il loro valore, al netto della soggiogazione, era allora di lire ventimilacinquecentotrenta. Due di essi utilizzavano l’acqua del Dirillo. Il mulino Paratore (7) sorgeva poco distante dal punto in cui la via comunale Casale-Tre Fontane intersecava il fiume. Gli altri tre mulini utilizzavano l’acqua del Fiumicello. Il Gramatico, pur tra una selva di rovi, conserva ancora la "cammira" sgombra da terriccio e sotto la volta ad arco è appesa la vecchia ruota con le sue palette sgangherate. II mulino di Macchia Noce fu l’ultimo in ordine di tempo a sospendere la sua attività. Sopravvissuto alla nuova epoca e alle nuove tecniche grazie all’ impegno e alla volontà ostinata del suo gestore (Signor Iacono Antonio), il quale pur dovendo affrontare innumerevoli sacrifici non aveva il coraggio di abbandonarlo, la sua ruota dovette fermarsi quando fu costruita la diga di Ragoleti. Nel suo interno si possono ancora osservare la "trimoia", la macina, la leva di arresto, la ruota con le pinne e altri pezzi sparsi. I nostri mulini erano tutti del tipo a palmenti. La fabbrica sorgeva sempre sotto il livello del terreno sul quale scorreva la "saia". L’acqua, precipitando dall’alto del "buttigghiuni", un robusto torrione in muratura, s’incanalava in un tubo metallico dal quale fuorusciva con forza, scaricando la sua energia contro le palette della ruota idraulica, provocandone la rotazione attorno al suo asse verticale. Più alto era il torrione, maggiori erano la pressione e la spinta. La volta ad arco, sotto il pavimento della stanza delle macine, dove la ruota appesa all’asse girava, si chiamava CAMMIRA. Allo stesso asse che attraversando lo spessore del pavimento penetrava all’interno, era unita la macina che ruotava perciò contemporaneamente alla ruota. L’acqua, dopo aver trasmesso l’energia alle pale con la sua spinta, oltrepassava la ruota e usciva dalla "cammira" per continuare la sua corsa all’aperto, nella saia. La fermata del mulino avveniva con due sistemi, ambedue basati sulla deviazione dell’acqua. Infatti la ruota idraulica non poteva essere bloccata poiché il getto d’acqua, spingendo con impeto contro le palette ferme, le avrebbe frantumate. Per la fermata provvisoria, normale durante il ciclo lavorativo, c’era all’interno una leva d’arresto mediante la quale si azionava un congegno che terminava con una pala metallica che, sollevandosi, deviava verso l’alto l’acqua che schizzava dal foro d’uscita. La ruota, non ricevendo più’ la spinta, si fermava e bloccava la macina essendo con essa solidale. All’altro sistema di fermata si ricorreva invece, solo in caso di maltempo. Nel tratto terminale della saia, a circa 8 metri dal buttiglione, veniva abbassata una saracinesca metallica e l’acqua deviava lateralmente disperdendosi. Si evitava così che la sterpaglia, i sassi e quant’altro l’acqua poteva trascinare, cadessero all’interno del "buttigghiuni", otturandolo e compromettendo il funzionamento del mulino. Senza dire che ripulire quel profondo tunnel comportava un’immensa fatica. Per assicurare il normale funzionamento del mulino, la saia doveva avere una portata di almeno 30/35 litri al secondo. Le fasi della molitura del grano erano molto semplici. Il frumento veniva versato nella tramoggia, che consiste in una cassetta piramidale capovolta; e attraverso l’apertura in basso, cadeva nel buco circolare centrale della mola, chiamata collo. Così il grano veniva a trovarsi nello spazio compreso fra la mola fissa che formava la base e la mola girevole che col suo peso lo frantumava e polverizzava sino a diventare farina. Questa, seguendo le scanalature della mola, fuorusciva attraverso il canale e veniva raccolta nel "Matraru" che era una cassa di legno da dove poi veniva insaccata. La prima farina macinata, circa un tumulo, si disponeva tutt’intorno alla macina rotante in modo da formare un bordo protettivo che impediva la dispersione dell’altra farina sotto forma di polvere. Nella tramoggia era applicato un congegno sonoro che, avvertiva il mugnaio quando la quantità di frumento stava per esaurirsi. Da un buco praticato sulla parete anteriore pendeva uno spago alla cui estremità erano legate delle lamelle metalliche. L’altra estremità, terminante con un grosso nodo, era tenuta ferma all’interno dal peso del grano. Quando il livello del frumento si abbassava oltre il buco, lo spago non più trattenuto, scivolava all’esterno e le lamelle andavano a posarsi sulla macina rotante, producendo un caratteristico tintinnio. Quando il rilievo delle scanalature si consumava, la macina mobile veniva sollevata mediante grossi bastoni usati come leva; e con un meticoloso lavoro di scalpello si rifacevano i "denti". La macina girevole era formata da un anello centrale e da dodici tasselli trapezoidali, tenuti fermi insieme da due cerchi di ferro. Poteva pesare sino a dieci quintali. La ruota idraulica, situata nella cammira, aveva i raggi e il cerchio di ferro; le palette o pigne, di legno. Il mulino di Macchia della Noce macinava in media quattro tumoli di frumento l'ora (circa 70 chilogrammi). Il mulino più’ grosso era quello di contrada Cassuso. Macinava sino a cento chilogrammi di grano l'ora. Veniva alimentato dall’acqua del Fiumicello, il quale scorre nel vallone che attraversa il Ficarrito, l’Orto del quadro, ecc.… La saia, continuando il suo cammino in pendenza oltre il Cassuso, raggiungeva e alimentava il mulino del Nuovo. Oltre al grano, si macinavano l’orzo, i ceci, il granone, ecc..., per i quali si destinava uno dei mulini. Qualche volta vi si macinava anche il tabacco. Gli inconvenienti si presentavano specialmente nella stagione invernale, poiché quando le piogge cadevano abbondanti, si aveva la piena e lo straripamento del fiume. Lo sbarramento (da noi chiamato ’prisa’), veniva travolto e la acqua non raggiungeva più il mulino attraverso la saia. Bisognava ricostruirlo nel più breve tempo possibile, col concorso di uomini e ragazzi. ______________ (7) Il nome Paratore (che si estese poi a tutta la contrada) sta ad indicare la funzione svolta dal congegno idraulico che integrava la tessitura di tipo casalingo della lana, mediante "un trattamento di ammorbidimento, di pulitura e di sodatura, che veniva effettuato mediante pestaggio del tessuto". H. Bresc-P. Di Salvo, "Mulini ad acqua in Sicilia" - L’Epos – Palermo 2001, p. 76 In epoca imprecisata, il Paratore venne trasformato in mulino e utilizzato per la molitura dei cereali. CONSUETUDINI L'attività del mulino era regolata da antiche usanze, che costituìvano quasi uno statuto. Allo scopo di meglio disciplinarne l'attività e nell’interesse della popolazione, in determinate occasioni vennero approvati dei regolamenti che di tanto in tanto venivano aggiornati, man mano che i tempi mutavano. Nel 1868 l’Amministrazione comunale stese una bozza di cui si riportano alcuni articoli: 31) I mugnai dovranno tenere i mulini aperti all’uso del pubblico in tutti i giorni e notti..… 32) 1 mugnai non possono rifiutarsi di macinare le granaglie dei privati, a seconda l’ordine progressivo in cui vengono presentati alla macinazione dai concorrenti sui generi tutti che si vogliono molire. 33) Per la macinazione dell’orzo, cicercoli, ceci, granone ed altro legume, i concorrenti si avvaleranno di quel molino all’uopo destinato dal Municipio. 34) Per diritto di molenda i mugnai non possono pretendere più della diciassettesima parte di quel frumento che s’intende macinare dagli avventori, nè più della decima parte dell’orzo o dei legumi che si presentano alla macinazione. Salve le altre competenze spettanti per le altre leggi dello Stato. 35) Sarà obbligo dei detti mugnai di tenere inoltre nei loro mulini i debiti vagli, ed una stadera per uso di quelle persone che intendono servirsi prima e dopo macinate le granaglie. Per un tale operato nessun diritto e dovuto dai privati. 36) Sono eziandio obbligati i mugnai di tenere riparati dall'umidità i sacchi delle granaglie e delle farine nei loro mulini; all’uopo dovranno avere un tavolato di legno per collocarvi di sopra i suddetti sacchi, affinché l'umidità non ne alteri il peso e la qualità a danno degli avventori. Successivamente vennero apportate delle modifiche. Fu stabilito, per esempio, che per diritto di molenda i mugnai non potessero pretendere più’ della diciottesima parte del frumento da macinare. Circa tre anni dopo, lo stesso articolo venne ancora modificato nei seguenti termini: "I mugnai sono obbligati di uniformarsi alle consuetudini di questo Comune in quanto a diritti e competenze per molenda". Il che significava che secondo l’antichissimo sistema di licodiani, il mugnaio aveva diritto alla sedicesima parte di frumento e all’ottava parte d’orzo. Altre aggiunte e modifiche troviamo nel 1908, a distanza di quasi quarant’anni. Il Regolamento contempla, fra l’altro, che: 1) I mugnai dovranno tenere i mulini aperti al pubblico dall’alba sino a due ore di notte, esclusi i giorni festivi (salvo i casi di urgenza). 2) Essi potranno prendere in natura la competenza stabilita per molenda senza il consenso della persona interessata. 3) Le finestre dei mulini saranno chiuse con impannate per impedire la volatilizzazione della farina. 4) I mugnai hanno l’obbligo di pesare i cereali presentati per la molitura, tanto prima che dopo la macinazione. In nessun caso lo "sfrido" della molitura può eccedere il due e mezzo per cento. 5) Essi sono obbligati a ripulire le macine prima di molire il frumento, qualora in precedenza sia stato molito grano diverso o legumi, come orzo, segala, ceci, ecc..… 6) I mugnai devono dichiarare (al Comune) di esercitare quella attività; e nella dichiarazione dovranno indicare il numero delle ruote e le forze motrici che hanno intenzione di applicare (8). _____________ (8) Già, in quegli anni, in alternativa alla forza idraulica i mulini usavano come forza motrice motori a gas povero, olio pesante, ecc ... LA TASSA SUL MACINATO E SUE CONSEGUENZE Secondo un vecchio adagio siciliano, "cui" junci primu a lu mulinu, macina". Ma nell’anno 1867 a Licodia (paese di furbi! ) le cose non dovevano andare esattamente così. Tant'è vero che l’assessore delegato alla sorveglianza della regolare macinazione nei mulini suggerì di destinare delle guardie nei mulini Nuovo, Gramatico e Macchia Noce "con l’incarico di far rispettare le vicende e di evitare gli abusi". Furono prescelti Giuseppe Falcone e Filippo Brullo, con la paga giornaliera di centesimi 85 ciascuno. Fu inoltre imposto al mugnaio del molino Paratore di dare la precedenza ai panettieri e ai pastai per la macinazione del grano, stante la necessità di costoro di soddisfare la quotidiana richiesta di pane e pasta, benché a Licodia si facesse largo uso della rinomata pasta di Vizzini, di qualità superiore ma più cara (Nel 1863 la pasta di Licodia era venduta a centesimi 22 rotolo; quella di Vizzini a centesimi 24. Nel periodo primaverile la persistente siccità mise in crisi i mulini. Macinare un po' di grano diventò impresa ardua. La folla si accalcava nel locale e ognuno aspettava pazientemente il proprio turno, sia di giorno che di notte. A peggiorare la situazione sopraggiunse un nuovo inconveniente: i nostri mulini oltre che dai licodiani, furono presi d’assalto dai cittadini di Monterosso, di Chiaramonte, di Grammichele, di Caltagirone, di Niscemi. La situazione divenne drammatica a tal punto da costringere il Comune ad una drastica decisione. In quel tempo il mulino Macchia Noce era adibito alla macinazione del tabacco. Il sindaco intima ai gabelloti Giuseppe La Spina e Giovanni Di Martino di interrompere quella attività e di predisporre il mulino da loro condotto in gabella, alla macinazione del grano entro il termine perentorio di giorni tre. Altra conseguenza della siccità fu il diffondersi del colera, che non risparmiò Licodia malgrado venisse istituito un cordone sanitario molto efficiente, con la istituzione di quattro caserme nel punto della ’Santuzza’, nello sbocco di S. Pietro lo Vecchio, al Fondaco Vecchio e dinanzi la chiesa di S. Lucia; e di un lazzaretto. Ciononostante, il controllo dei mulini non venne meno e alla guardia campestre D. Andrea Albo Giuca che li visitava a cavallo per assicurare il normale funzionamento, fu data una gratificazione di lire venti. L’anno successivo, a causa della tassa sul macinato, sul Comune cominciarono a piovere altre grane. La baronessa Celestina Bellisario, vedova Caffarelli, proprietaria dei mulini, manda all’amministrazione i "ferri" dei mulini Cassuso, Nuovo e Paratore poiché, a suo dire, la Commissione centrale l’aveva gravata di un’imposta esosa. Cosa fare? Il fermo delle macine sarebbe stato inconcepibile a causa del grave danno che avrebbe arrecato alla popolazione, con conseguenze imprevedibili. Sicché, in attesa di ulteriori disposizioni, la Giunta decide di riaprire il Nuovo e il Paratore, situate in due opposte contrade rispetto al centro abitato. Per un po’ di tempo si va avanti così, mentre si tenta di raggiungere un compromesso con la proprietaria. Ma la baronessa tergiversava, forse non a torto; cosicché non si riesce a dare soluzione ad un problema che di giorno in giorno si fa sempre più’ grave. Il Nuovo e il Paratore vengono chiusi. L’atmosfera torna a farsi rovente mentre la popolazione continua a rumoreggiare in modo preoccupante. Si giunge così all’estate del 1871. L’amministrazione comunale dispone d’autorità la immediata riapertura dei molini Nuovo e Gramatico. Vengono chiamati i mugnai Sebastiano Di Martino e Angelo Di Martino ai quali saranno dati, rispettivamente, litri 50 al mese di frumento e centesimi trenta al giorno di mercede. Alcuni giorni dopo le autorità, considerato che la riapertura dei mulini Nuovo e Gramatico non è sufficiente a coprire le esigenze della popolazione; che già da tre giorni mancano il pane e la pasta; che "la gente è accalcata nei mulini con la speranza di macinare almeno in parte il grano e che l’agitazione è tale da far temere una sommossa", propone l’apertura del mulino Paratore che potrebbe ottemperare ai bisogni della comunità. Adesso vale la pena di vedere da vicino alcuni bilanci relativi alla gestione dei mulini da parte del Comune e quanto ebbe a pesare su questa gestione la tassa governativa sul macinato, che venne a turbare per oltre un decennio la pacifica attività di questi indispensabili strumenti per la macinazione, con grave turbamento e disagio per la popolazione, sulla quale venivano a ricadere, come sempre del resto, gli effetti negativi di questo stato di cose. L’amministrazione comunale, che per ragioni di ordine pubblico aveva aperto i tre mulini di cui sopra; e che successivamente aveva disposto anche l’apertura del mulino Macchia Noce, allo scopo di tutelare gl’interessi del Comune e di regolare il servizio di macinazione dei cittadini aveva delegato l’assessore Don Carmelo Mazzarino. Dovendo ora la Giunta conoscere l’andamento di questa prima fase di macinazione, chiede all’assessore il rendiconto; ed egli consegna un "Notamento" che fa riferimento sino a tutto il quattro Agosto. INTROITI -Tassa governativa sui molini Nuovo, Gramatico e Paratore: £. 447 -Importo ricavato dalle molende, vendute a Comiso: £. 255 Totale introiti: £. 702 USCITE -Ai tredici operai che per due giorni hanno lavorato per espurgare le saie del Nuovo e del Gramatico, a lire 1,70 ciascuno: £. 44,20. - Mulino Paratore: - Per espurgo della saia, all’operaio: £. 1,70. - A due braccianti, per scavare e sgomberare terra: £. 1,90. - A tre ragazzi per otturare la diga: £. 1,90. - Per sei tumoli di gesso: £. 1,17. - Al fabbro per tre perni: £. 0,45. - Alla persona chiamata per situare le macine: £. 3,82. - Mulino Macchia Noce: - Ai cinque operai incaricati dell’espurgo della saia: £. 8,50. - Agli stessi: £. 10,20. - Ad altri: £. 17. - Per scavo e sgombro di terra: £. 2,73. - A tre ragazzi per portare terra nella diga, a £. 1,15; e ad altri tre più’ piccoli per lo stesso oggetto, a £ . 1,10: £. 7,60. - Per sistemazione macina: £. 3,60. - Per un levatoio d’acqua: £. 2,13. - spese diverse, per materiale e manodopera: - Paga alla persona incaricata di porgere il frumento al crivellatore. - Per trasporto di mole e di un collo di macina. - Per trasporto di molende. - Ad Angelo Interligi per condurre il verificatore dei contatori da Vizzini. - A Don Vincenzo Mazzone per crivellare e misurare il frumento delle molende. - Altre voci. - Totale spese diverse: £. 31,70. - Per gli amministratori dei mulini: - Nuovo e Gramatico (dal 21 luglio al 4 agosto): £. 38,30. - Idem per il Paratore (dal 25 luglio): £. 14. - Tassa governativa: Sui mulini Nuovo e Gramatico dal 21 al 27 luglio, giusta gli elenchi spediti dalla Intendenza di Finanza di Catania, ed in proporzione del tempo della ge- stione del Comune: £. 319,33. Totale spese: £. 507,03. - Rimanenza attiva (702-507,03): £. 194,97. La Giunta considera però che questo attivo è apparente, poiché "nessuna somma per tassa erariale è stata finora accertata sul molino Paratore; e per gli altri due molini non trovasi liquidata che fino al 27 luglio. Mentre d’altro lato la somma sopra significata per gl’introiti si è ottenuta dall’apertura dei molini per conto del Municipio fino al dì quattro andante; il che importa che la somma di £. 194,97 dovendo far fronte alla gestione per ben altri otto giorni (28 luglio/4 Agosto), è impossibile che vi possa far fronte". La somma avanzata viene pertanto depositata presso il Sindaco, in attesa di utilizzarla per le successive liquidazioni della tassa. Inoltre viene sottoposta al Consiglio la contabilità di cui sopra e le altre che seguiranno, sino a quando sarà cessata la macinazione esercita dal Municipio. Nello stesso mese di agosto, esattamente il giorno 25, la Giunta si riunisce ancora per fare il punto della situazione sull'attività dei mulini, di cui attualmente è responsabile il Comune. L’assessore Mazzarino, destinato alla direzione della macinazione, esibisce la contabilità relativa al periodo che va dall’ 8 agosto al giorno precedente la riunione (per complessivi giorni diciassette): INTROITI - Tassa sulla macinazione del molino Nuovo versata da Giuseppe Pepi dal 5 al 20 andante: £. 1,90 - Idem molino Gramatico da 15 al dì 24, versata da Francesco Barone: £. 111,70 - idem molino Paratore dal 5 al 22, versata da Ignazio Vacirca: £. 113,85 - Idem molino Macchia Noce dal dì l l al 20, versata da Epifanio Murabito: £. 134,08 - Prodotto delle molende ricavate, in salme sette e mezza antica misura sicula (9): £. 400 Totale introiti £. 949,63 ESITI - Per ispurgare il molino Macchia Noce: £. 3,60 - Per 4 boccalori di ferro, una chiave, chiodi, due vòscele, tre cerchi, viaggi di molende, acconci alla diga Gramatico e altro: £. 23,05 - Ad Angelo Interligi per 5 fascini legna inservienti nella diga Gramatico: £. 2,75 - A due ragazzi per mezza giornata: £. 0,60 - Espurgo Macchia Noce: £. 2,30 - A Vincenzo Mannuzza e Croce Sammartino per 50 pinne e maestria della ruota Nuovo: £. 5,30 - Ad Angelo Interligi per otturare la diga del Paratore, con l’aiuto di tre ragazzi: £. 3,75 - Tassa dovuta al Governo giusta gli elenchi spediti dalla Intendenza di Finanza, cioè: 1) Pel molino Nuovo dal 28 luglio al 7 agosto: £. 314,06 2) Pel molino Gramatico dal detto giorno al di’ otto detto: £. 209,04 3) Pel molino Paratore da 120 detto al di’ undici agosto: £. 813,09 Totale esiti £. £. 1378,45 La differenza passiva è di £. 428,82. Considerando però che il precedente bilancio riporta un attivo di f. 194,97, il debito del Comune verso il Governo scende a lire 233 e centesimi 85. Si precisa inoltre che questo conto è da considerarsi provvisorio, in quanto il frumento delle molende non è stato ancora venduto; e che attesa la quantità di esso, la somma di lire quattrocento è stata calcolata approssimativamente. La somma dovuta al Governo viene pagata con mandato di pagamento a favore del Percettore. Un breve sguardo a questi bilanci, e in particolare al secondo, ci fa vedere quanto esosa fosse la tassa sul macinato: così esorbitante da coprire essa sola quasi il totale delle uscite. Un’altra considerazione va fatta a proposito delle varie voci relative alla manutenzione dei mulini, sempre bisognosi di riparazioni. Per questo motivo il popolo era solito ripetere che "A mulinu e a nova spusa sempri cci vonnu conzi". (Al mulino e alla sposina, manca sempre qualche cosa). Il 29 Agosto 1871 le piogge abbondanti provocano la piena del Fiumicello, che causa molti danni alle saie e nella diga del mulino Gramatico che cessa di macinare. L’amministratore Francesco Barone informa l’Amministrazione comunale, chiedendone l’intervento per le necessarie riparazioni. Il 4 Settembre si riunisce la Giunta e il Sindaco, dopo avere esposto i fatti, ricorda ai presenti i danni ingenti subiti dal Municipio da quando si dispose la macinazione per motivi di ordine pubblico. Egli aggiunge che l’emergenza è ormai cessata, grazie all’apertura di altri tre mulini. Propone pertanto la chiusura del Gramatico. La Giunta, considerando che a suo tempo l’apertura fu disposta perché i cittadini "non vedeano modo di provvedere alla cibaria", che questi bisogni ora sono cessati in quanto i tre mulini aperti danno tanta farina da soddisfare ogni necessità; che non è il caso di affrontare un’altra spesa per ripristinare il funzionamento del mulino non essendovene la necessità, delibera all'unanimità la chiusura "diffinitiva" del Gramatico, ordinando che la chiave e il ferro restino a disposizione dell’Agente delle Imposte Dirette. A meta settembre il peso della tassa governativa si fa insopportabile. Il Sindaco propone urgentemente di "rimediare ad un inconveniente che se per disavventura avrà durata, finirà per rovinare del tutto la finanza del Comune, la quale fin oggi si trova nella circostanza di rifondere da due a tre mila lire". Si è già studiata la possibilità di far venire due mugnai da Caltagirone; e sarà presentato un elenco dei cittadini che si sono offerti volontariamente di sorvegliare gli amministratori. Evidentemente si comincia a dubitare di qualcuno! Inoltre si è considerato che per soddisfare ai bisogni della cittadinanza potrebbero bastare i soli mulini Paratore e Nuovo; motivo per cui si delibera la pronta chiusura del mulino Macchia Noce. Intanto sull’amministratore e sul guidatore del Paratore si addensano i primi sospetti di frode; e gli stessi sospetti cadono sul guidatore del mulino Nuovo. Infine si deve controllare la condotta degli amministratori e dei mugnai del mulino Macchia Noce. Si delibera con voto unanime di rimuovere istantaneamente dall’incarico, esonerandoli dal servizio, l’amministratore e l’agente del Paratore Gesualdo Vacirca, con la riserva di adire le vie legali. In sostituzione del primo viene nominato il sacerdote Salvatore Li Rosi che assumerà le funzioni il giorno dopo. Inoltre viene esonerato il guidatore del Nuovo, Paolo Laspata, e nominato in sua vece, con effetto immediato, Angelo Di Martino. Frattanto i consiglieri Filippo Scacco e Li Rosi Antonino, incaricati di controllare i registri della macinazione, ancora hanno controllato soltanto quelli del Mulino Macchia Noce, dai quali risulta che gli amministratori Epifanio Morabito, Francesco Galeani e Giacomo Giuffrè hanno commesso delle frodi e delle appropriazioni. Gli stessi illeciti risulterebbero a carico del mugnaio Giovanni Di Martino, ma non è ancora accertato. Pertanto i due commissari propongono querela. Tanto per sorridere un momento, c’è da chiedersi quanti mugnai, in passato, abbiano meritato il paradiso. Stando a queste notizie, saranno stati davvero pochi, se si deve dar credito a un antico detto che correva sulla bocca della gente, secondo il quale "lu mulinaru è sempri nni lu ’ntricu: vivu è nni l’acqua, e mortu è nni lu focu’" (Cioè: per i furti che commette, morto va all’inferno). In autunno la situazione torna a farsi critica per la quasi totale chiusura dei mulini. Nuovo intervento del Municipio il quale ordina l’apertura dei due mulini Cassuso e Gramatico, per i quali assume l’esercizio per conto proprio e si obbliga per il presente di corrispondere al Governo la tassa secondo i risultati del contatore meccanico. Viene deciso altresì che il controllo dell’amministrazione "di tutti i mulini aperti e da aprirsi fosse sottoposto tanto per la tassa della molenda quanto per il servizio in generale, ad un regolamento da compilarsi da apposita Commissione che all’uopo e sull’istante è stata eletta nelle persone dei Signori D. Eugenio Aliotta Presidente, Notar Giuseppe Di Gregorio, Antonino Li Rosi, Notaro Giuseppe Di Vita e Saverio Albo". Alcuni giorni dopo, improvvisamente la situazione si blocca. Il Comune dà in appalto l’amministrazione dei mulini e il 23 ottobre 1871 il contratto viene sottoscritto dai nuovi gestori. Sono stati anni difficili durante i quali si sono alternati disagi, momenti di tensione anche grave, sacrifici, decisioni responsabili. Ora dovrebbe tornare la quiete. Nella delibera si fa preliminarmente la cronistoria degli avvenimenti accaduti dal 1869 in poi. Si ricorda che per effetto della chiusura dei mulini nel territorio di Licodia per opera del signor Sebastiano Agnello quale rappresentante della proprietaria Baronessa Caffarelli, per divergenze con l’Erario dello Stato, il Municipio dovette intervenire d’autorità per riaprirli, addossandosi l’onere della gestione e della corresponsione della tassa secondo le indicazioni dei contatori meccanici. Intanto gl’introiti non erano bastevoli a far fronte alla tassa governativa e si cercò di affidare l’appalto a gestori privati con la garenzia del Municipio, ma inutilmente. E allo scopo di non compromettere ulteriormente le finanze comunali, dietro suggerimento del Sottoprefetto di Caltagirone si concepì l’idea di aumentare la molenda in ragione di lire 2,50 per ogni quintale. Nessuno però volle accettare. Perciò, per ovviare alla penuria in cui versavano i cittadini, fu disposta l’apertura del Cassuso per adibirlo alla esclusiva macinazione del frumento dei panettieri e dei pastai. Si ebbe infine un’offerta di lire cinquantanove al giorno per la cessione del mulino Paratore; e un’offerta di lire quarantuno per il Cassuso e per il Nuovo. Sulla base di tale offerta fu aperta l’asta e fu avvertita la popolazione per mezzo del banditore Giovanni Cafiso. Si presentarono altre persone che offrirono per il Paratore lire sessantadue al giorno; e lire quarantanove e centesimi cinquanta per gli altri due mulini. Altri offerenti portano la cifra a lire 64 per il Paratore e a lire 44 per gli altri due. Per il primo mulino l’offerta sale ancora sino a lire 66, mentre per gli altri due si rimane fermi a lire 44. L’asta continua col sistema della candela vergine. "Si accesero successivamente cinque candele, e come che durante il loro fuoco non si stancò di fare inviti per migliorare l’ultima offerta". Ma senza esito! Allora la Giunta delibera seduta stante di cedere ai signori Pepi Gaetano, Morabito Epifanio e Sac.te Li Rosi Salvatore la gestione del mulino Paratore; e ai signori Gesualdo, Nunzio e Giovanni Di Pietro, Pietro Cannizzo e Mario Aiello la gestione dei molini Cassuso e Nuovo. La cessione sarà regolata dalle seguenti clausole, accettate dagli appaltatori, che si riportano quasi integralmente, in considerazione del particolare interesse che rivestono in quanto fanno conoscere le antiche usanze che regolavano questo genere di rapporti. 1) L’obbligazione viene assunta dai firmatari in solidum, dovendo ognuno di essi corrispondere per lo intiero pagamento. 2) I cessionari devono riscuotere come corrispettivo della macinazione lire quattro e centesimi cinquanta per quintale metrico di frumento, e lire tre per quintale metrico di orzo o altri cereali; ragionati cioè lire due come tassa governativa di frumento e centesimi cinquanta come tassa governativa d’orzo, o altre granaglie; e lire due e cent. 50 per molenda; restando loro proibito di profittare di altra paga od emolumento qualsiasi, sotto qualsivoglia titolo o per altra causa ordinaria o straordinaria qualunque. 3) Come corrispettivo della riscossione della tassa e della molenda surriferita, i cessionari sono obbligati di pagare al Comune e per esso all’Esattore comunale, alla ragione di ogni giorno composto di ore ventiquattro e pospostamente; cioè lire sessantasei pel Paratore i Signori Pepi, Morabito e li Rosi; e lire quarantaquattro pel Cassuso e Nuovo i Signori Di Pietro, Cannizzo ed Aiello. Senza poter pretendere compenso alcuno pel tempo che sarà sprecato nella martellatura. 4) A garenzia però della obbligazione assunta sul pagamento, i cessionari anticipano e pagano qui alla presenza dei testimoni Giuseppe Falcone fu Gesualdo e Giovanni Falcone fu Pietro, rispettivamente lire 198 e lire 132, che corrispondono a giorni tre di estaglio; la quale somma sarà rivalutata e compensata con la macinazione dei tre giorni immediati al termine della gestione. 5) Questa gestione avrà la durata cioè: pel Paratore dall’ora una e mezza di questa sera stessa; e pel Nuovo dall’ora una di notte (10), e pel Cassuso dal momento in cui sarà messo atto alla macinazione costatabile per apposito verbale da redigersi in linea amministrativa tra la Giunta e i cessionari sino al giorno in cui la proprietaria Signora Caffarelli, o per essa il Signor Sebastiano Agnello, ripiglierà per sè la macinazione dei mulini. 6) I cessionari si obbligano espressamente di non molire granaglie di forestieri almeno finchè duri folla di generi licodiani, e durante la gestione loro assunta si obbligano eziandio di non esercitare né direttamente né per interposta persona il mestiere di pannettieri e pastai, quello di farinaiuoli, tanto come venditori che come permutamenti col frumento; a quale oggetto restano assoggettati al dovere di presentare giorno per giorno col Municipio la nota delle persone che han macinazione nel giorno precedente, con la quantità rispettiva del genere macinato. 7) Si obbligano ancora i cessionari di non permettere nessuna preferenza per qualsivoglia quantità di genere da macinare a chicchesia, ma di eseguire la macinazione in ordine progressivo con la priorità del genere intrato prima di fronte a quello intrato dopo, a qual uopo restano obbligati di tenere un registro di entrata e di uscita vistato dal Sindaco, che sarà esibito al Municipio, o al suo rappresentante, quante volte si richiederà pel debito esame, dovendo questo registro mantenersi nitido e senza cancellature, abrasure o intelinee. .In tutti i casi i Licodiani sono preferiti ai forestieri. 8) Resta destinato espressamente il molino Cassuso alla macinazione del genere dei panettieri e dei pastai, i quali non possono avere ingresso in altri molini. Il Cassuso però non riceverà altro genere che quello dei cennati esercenti. Finché questo non sarà aperto, continua intanto a molire di preferenza il genere dei panettieri e dei pastai da non sorpassare i quattro quintali per ogni ventiquattro ore, il Paratore. Resta convenuto che il genere di costoro debba macinarsi con le stesse regole meccaniche e sotto le stesse condizioni di qualunque altro genere, a qual uopo si fa proibizione ai medesimi di regolarsi a loro beneplacito la forza motrice, il che sta nella facoltà di colui che guiderà il molino. 9) Quando per causa fortuita, o per assoluto difetto di genere, non può il molino operare, i cessionari debbono presentare il ferro al Municipio pel debito compenso di quel tempo nel quale attesa la mancata macinazione, i cessionari non debbono pagare nessun fitto; essi però sono in obbligo di togliere ed esibire il ferro suddetto con la massima urgenza e devono inoltre provare con la dichiarazione economica di quei testimoni che si troveranno nel molino l'ora in cui questo si sarà fermato, per procedere ai debiti compensi sia in occasione dei casi fortuiti o di difetto di genere, e che per istabilirsi il tempo in cui i molini ritorneranno allo esercizio della proprietaria. Il contratto si conta per ore, restando espressamente convenuto che pel Paratore, si intende fermata la macinazione un’ora e mezza prima dal punto in cui sarà presentato il ferro al Sindaco; un’ora pria dal punto in cui sarà presentato alla stessa Autorità il ferro rispettivo pei molini Cassuso e Nuovo. 10) I cessionari devono sottostare agli esami che vorrà disporre il Municipio tanto per accertare le contravvenzioni che per sorvegliare il modo con cui la macinazione procede. 11) Il Municipio si riserva la facoltà di aprire quando crede altri molini che sono ancora chiusi, sotto le regole e le condizioni stabilite nel presente Capitolato; e di chiudere gli aperti, sia in parte che in tutto. 12) Posto che l’aumento delle molende è causato dalla disperata condizione in cui si trova il Comune, perché dalla solita mercede non si può far fronte alla tassa governativa, il Municipio ha il diritto e il dovere di ridurre al sedicesimo del genere che si molisce la molenda sudetta, al momento che la nuova perizia avrà ridotto la misura della tassazione del contatore, o la proprietaria richiamerà a sé la gestione dei molini. Salvo il dritto ai cessionari di ridurre in ragion geometrica il fitto al Comune. 13) Le spese tutte occorrenti alla conservazione delle saie, al ripristinamento delle acque quando queste deviino per qualsiasi circostanza ordinaria o straordinaria; gli acconci e la riparazione o le riparazioni e tutto ciò in generale che sia necessario alla macinazione, resta a carico dei gestori cessionari, i quali han diritto solamente di aver consegnati ora i molini all’opera. 14) Ogni contravvenzione debitamente accertata sarà passibile della condanna della multa in lire cinquanta, la quale sarà deliberata dal Sindaco o da chi per esso mediante verbale in linea amministrativa alla base dell’articolo 148 legge comunale e provinciale. l5) Il presente sarà eseguibile e subordinato all’approvazione del Consiglio Comunale. Seguono le firme degli assessori e degli appaltatori, tre dei quali mettono il segno di croce. Nel corso della stessa seduta il consigliere Eugenio Aliotta propone che si dia carico ai nuovi gestori di permettere la macinazione di una sola metà per ciascuna partita di granaglie depositate nei mulini in attesa di molitura, salvo che si tratti di piccole partite "di due tomini o meno", precisando che questa restrizione cesserà col ritorno alla normalità. Il giorno dopo la Giunta, che già ha fatto due liquidazioni al Governo secondo i quantitativi segnati dal contatore meccanico sino a tutto il 24 Agosto scorso con un debito complessivo di lire 233,85, si riunisce per chiudere definitivamente la contabilità che va dal 25 Agosto al giorno stesso della riunione, in modo da saldare la pendenza col Percettore. I due assessori delegati all’amministrazione e alla sorveglianza della macinazione presentano la seguente nota: INTROITI - Risultato del verbale 25 Agosto 1871: £. £. 1651,63 - Entrate in date diverse dei molini Macchia Noce, Paratore e Nuovo: £. 2121,33 - Molende: 15 Settembre prezzo di salme sette e tumoli cinque, frumento venduto ai Comisani, ricavato da Macchia Noce e Paratore: £. 396,92 - Prezzo di salme quattro e tumoli dodici del Nuovo, venduto come sopra: £. 257,55 - Prezzo di salme cinque, tumoli cinque e mondelli uno ritratti dal Paratore e Nuovo, venduto ai Comisani: £. 285,95 - Prezzo di altre molende vendute ai soliti forestieri e di farinaccio del Paratore: £. 506,80 Totale introiti £. 5220,18 ESITI - Risultati del verbale 25 Agosto: £. 1885,48 - Salari: - Nuovo: a Giuseppe Pepi saldi per servizi come amministratore fino al 15 Agosto: £. 18,25 - A Paolo Laspata guidatore: £. 16,55 - Gramatico: a Francesco Barone saldo per servizi come amministratore fino al 28 di Agosto: £. 39,85 - Ad Angelo Di Martino guidatore: £. 12,75 - Paratore: a Gesualdo Di Pietro guidatore: £. 18,45 - Macchia Noce: a Giovanni Di Martino guidatore: £. 13,80 - Tassa governativa, relativa ai quattro mulini: £. 5813,72 - Spese diverse, comprendenti anticipi di spese, fitto di magazzini per deposito delle molende, riparazioni agli attrezzi dei molini e delle saie, trasporto di molende ed altro: £. 722,6 Totale esiti £. 8541,4 Il passivo del Comune ammonta complessivamente a lire 3321, cifra davvero rilevante per quei tempi. ______________________ (9) Con Decreto del 1809, che ebbe applicazione pratica dal primo gennaio 1811, Ferdinando III Borbone unificò pesi e misure in tutto il Regno di Sicilia. Per gli aridi il rapporto tra salma alla grossa abolita e la legale fu 1/80; si ebbe cioè la riduzione di un quinto. (10) La differenza di orario era calcolata in rapporto al tempo necessario per raggiungere il mulino e metterlo in funzione. Rispetto al Nuovo, il Paratore era più lontano, perciò occorreva mezz’ora in più di cammino. GESTIONE PRIVATA DEI MULINI A distanza di qualche settimana viene decisa la chiusura del mulino Paratore per difetto di macinazione. Era successo che nelle vicinanze lavorava da qualche tempo un nuovo mulino, sorto nel territorio di Vizzini. Si chiamava Coralla ed esercitava una forte concorrenza, sicché la gente aveva finito per accordargli la sua preferenza. Quando però questo mulino dovette far fronte a tutte le richieste di macinazione dei paesi convicini, non fù più in grado di soddisfarle. Fu così che la gente, e in particolare i licodiani, pretesero la riapertura del mulino Paratore. II Comune non poteva certo ignorare i bisogni della popolazione e accondiscese. Memore però della precedente esperienza, si affrettò a cedere la gestione a privati appaltatori mediante asta, come del resto aveva già fatto nel trascorso mese di ottobre. (Siamo a dicembre) - La prassi e quella solita. L’offerta più vantaggiosa viene fatta dai signori Accardi, Ferlisi, Guglielmino ed Aiello panettieri; i quali si obbligano di pagare la tassa secondo le indicazioni del contatore e col diritto di riscuotere la sedicesima parte di frumento come molenda, e lire una e cent. 80 per tassa macinato, per ogni quintale. Essi pagheranno al Comune l’uguale somma di quella che sarà richiesta dal Governo come tassa relativa al mulino Paratore. A garenzia della loro obbligazione i cessionari anticipano, alla presenza di testimoni, la somma di lire centocinquanta, moneta di bronzo. Devono inoltre pagare per ogni giorno lire cinquanta che si tollerano in monete di bronzo, per far fronte alle "significhe" del Governo. A suo tempo saranno fatti i dovuti compensi in più o in meno. I nuovi gestori si obbligano, altresì, sino a che il mulino sarà ripreso per la macinazione dalla proprietaria Sig.ra Baronessa Caffarelli, o un ordine superiore ne disporrà la chiusura. Si permetteranno ancora tutte le ispezioni che il Municipio vorrà eseguire mediante funzionari o agenti, sia dentro che fuori il mulino "per vegliare l’andamento della macinazione, l’osservanza del contratto e la condotta dei cessionari sotto tutti i rapporti". Il mulino sarà restituito nelle medesime condizioni in cui viene consegnato. Non si potrà pretendere alcun indennizzo per colmamento di saie, rottura di diga, e logoramento di attrezzi che possano fermare temporaneamente il mulino. In precedenza era pervenuta al Comune una richiesta di Sebastiano Agnello rappresentante della Baronessa Caffarelli, il quale faceva presente che il mulino Gramatico gestito a suo tempo dal Municipio per ragioni di ordine pubblico, durante questo esercizio venne rovinato per la distruzione della diga e per le colmature nelle saie, causate dalle alluvioni. E siccome quando fu ricevuto dal Comune il mulino era atto alla macinazione, egli chiede che venga riportato allo stato primitivo a spese dello stesso Comune. Ritenuta legittima la richiesta, si corrisponde al signor Agnello la somma di lire duecento. Vengono poste pero delle condizioni. L’Agnello dovrà obbligarsi ad assumere la gestione del Gramatico per la macinazione; dovrà versare inoltre lire 30 giornaliere al Comune il quale s’impegna a sua volta a pagare al Governo secondo le indicazioni del contatore e i relativi elenchi di tassazione. Con quest’ultimo impegno si chiude un periodo molto travagliato dell'attività dell’amministrazione comunale di Licodia. In seguito tutti i mulini saranno rilevati dalla proprietaria Baronessa Caffarelli che li cederà in gabella ad altri gestori privati. Trascorrono un paio di anni tranquilli. L'attività dei mulini è tornata alla normalità e non si lamentano più inconvenienti. Almeno in apparenza. Perché sotto la cenere cova il crescente malumore dei licodiani. Una volta tanto però, la tassa sul macinato non c’entra. Stavolta sono i mugnai a suscitare le ire dei cittadini, i quali si rivolgono al Comune. Questi i fatti. I mugnai, in spregio alle più inveterate consuetudini e all’uso costante, esigono la molenda in quantità superiore a quella prevista, senza considerare le estorsioni e i soprusi che commettono a danno delle persone che si portano nei mulini per la macinazione. Si è appreso che i mugnai determinerebbero la misura della molenda a loro arbitrio, credendo di poterlo fare trattandosi, a dir loro, di prestazioni di opere di gestori privati. E’ notorio inoltre come gli esercenti dei mulini facciano abusi ed eccessi "sino al punto da provocare la popolazione a fatti di cui non diede mai esempio". Costoro, presi in gabella i mulini della Baronessa Caffarelli, "non ebbero altro scopo se non quello di organizzarsi ai furti i più’ impudenti ed alle più’ sconsigliate spoliazioni". Sordi ed indifferenti alle raccomandazioni delle autorità e in spregio alle lamentele della popolazione, i mugnai esigono una eccessiva quantità di granaglie quale diritto di molenda, oltre al quantitativo che sottraggono con la frode e alla sostituzione di una qualità scadente con altra buona. Ma la cosa più grave è che "il popolo minuto avvezzo all’antichissimo sistema della sedicesima parte del genere per diritto di molenda all’esercente", crede che i funzionari addetti all’amministrazione comunale siano quanto meno indifferenti alle angherie subite dalla povera gente e facciano "impunemete procedere i mugnai a loro bell’agio". E chissà che il popolo non sospetti un tacito accordo sottobanco! D’altra parte tutti sanno che all’atto della cessione in gabella, siglata tra gli esercenti e la baronessa, si era convenuto che si dovesse esigere la sedicesima parte se si trattava di frumento, l’ottava parte se si macinava orzo. A fugare ogni sospetto e con l’intento di porre un freno agli abusi di cui sopra il Consiglio decide pertanto di rivolgersi direttamente al Ministero dell’Interno, affinché ai mugnai di Licodia venga imposto di pretendere come molenda la sedicesima parte di grano e l’ottava parte di orzo; e ciò "per come dalle costanti e inveterate consuetudini risulta". Nel caso in cui questa istanza non fosse accolta dal Ministero, il Consiglio manifesta l’intenzione di declinare la carica, ossia di dimettersi. Malgrado tutto, i mulini continueranno a funzionare per molti anni ancora e sulle trazzere proseguirà ininterrotto il viavai delle bestie cariche di sacchi. Abolita la tassa sul macinato e tolti gli odiati contatori, la loro attività venne segnata sui registri di carico e scarico. Attività intensa, se si considera che alcuni di essi sono impegnati anche nel giorno festivo. Infatti nei primi anni del Novecento, Salvatore La Spada gestore del mulino ad acqua Nuovo, subentrato a Francesco Fede che in precedenza eserciva per conto proprio i mulini del Barone Caffarelli, presenta un’istanza all’amministrazione comunale affinché usufruisca del riposo il giovedì anziché la domenica, giorno in cui molte persone, in prevalenza agricoltori, vanno a macinare. Ma l'era dei mulini ad acqua è destinata a tramontare. All’inizio del nuovo secolo, in via Salnitro è attivo un mulino a palmenti, ma con la mola azionata da un motore a gas. Proprietari del mulino, denominato S. Paolo, sono i fratelli Di Martino Gaetano e Vincenzo fu Angelo. Nel 1915, mentre l’Italia entra in guerra, è in funzione un altro mulino denominato S. Margherita. E’ del tipo a vapore. Nel volgere di pochi mesi, a causa degli eventi bellici, quasi tutti i mulini ad acqua sono chiusi, ad eccezione del Nuovo, gestito ancora da La Spada Salvatore. Si giunge cosi’ al 1917. Il Comune, per fronteggiare la situazione, fa istanza affinché a Failla Salvatore, dichiarato abile alla visita militare, venga concessa una licenza straordinaria onde evitare che la sua partenza determini la immediata chiusura del mulino a vapore S. Margherita, del quale egli è proprietario e guidatore. Poiché il S. Paolo è già fermo, essendo il titolare sotto le armi, la chiusura dell’unico mulino ancora aperto in paese, potrebbe arrecare gravissimi disagi alla popolazione, con grave pregiudizio per l’ordine pubblico. Due mesi dopo viene avanzata una richiesta analoga, intesa ad ottenere il temporaneo esonero dal servizio militare del soldato Di Martino Agatino fu Paolo, allo scopo di far riaprire il mulino S. Paolo, di cui egli è proprietario e gestore diretto. Il funzionamento di questo opificio si rende indispensabile, in quanto l’altro mulino S. Margherita è adibito esclusivamente alla produzione della farina che viene distribuita alla popolazione e ai pastai; e ciò in base alle tassative disposizioni di legge emanate per far fronte alla critica situazione determinata dallo stato di guerra. Negli anni del primo dopoguerra è attivo anche il mulino S. Giuseppe, sito in via S. Pietro il Vecchio, nel quartiere Nostra Donna (Divenuto frantoio in tempi recenti). Ne sono comproprietari i signori Di Martino Angelo di Vincenzo e Falcone Giovanni Sebastiano fu Giuseppe. In quegli stessi anni i Di Martino, che da più generazioni si dedicano ormai a questa importantissima attività, sostituiscono il mulino di via Salnitro con uno a cilindri, di nuova costruzione, presso il Fondaco Vecchio, sotto il castello (11). Intanto, dopo il conflitto, anche i vecchi mulini ad acqua hanno ricominciato a macinare; ma la loro plurisecolare parabola sta per concludersi. Il primo a chiudere, stavolta per sempre, è il Paratore. La concorrenza dei nuovi, moderni mulini sorti nel centro abitato si fa sentire pesantemente. Tuttavia molte persone preferiscono portare il grano nei mulini ad acqua, che con il loro antico sistema di lavorazione, rimasto inalterato nei secoli, assicurano un prodotto particolarmente genuino. E ciò, malgrado le difficoltà dovute alla distanza e alle cattive condizioni delle strade e delle trazzere, specialmente nella stagione invernale. Nel 1927 è ancora attivo il mulino Nuovo, il solo che provveda la popolazione di farina integrale. Spesse volte è difficoltoso accedervi per i continui guasti al ponte Pirrone. La sua attività si protrasse per diversi anni. Ne fu titolare Di Pietro Matteo di Pasquale. Da costui fu venduto a Randello Carmelo che lo gestì fino al 1953, anno in cui fu definitivamente chiuso. Anche il Cassuso fu gestito da Matteo Di Pietro. La sua attività cessò nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sotto la direzione di Di Pietro Pasquale, padre di Matteo, il mulino Gramatico fu attivo sino agli anni quaranta. Passato in eredità alla figlia Angelina, costei sposò il signor Di Martino Giuseppe che assunse la gestione del mulino. Il Gramatico si fermò nel tardo dopoguerra, quasi contemporaneamente al Nuovo. L’ultimo a mollare fu quello di Macchia Noce che rimase in attività sino al 1962 circa. Il progresso aveva vinto! Di questo patrimonio oggi rimane ben poca cosa. Solo qualche rudere o qualche costruzione fatiscente, miracolosamente in piedi, in attesa dell’ultima spallata che il tempo e l’incuria degli uomini stanno per assestare. Vecchie macine e tramogge in pezzi sono le superstiti testimonianze di una civiltà rurale che poteva essere un vanto per Licodia e che, invece, va in rovina. __________________________ (11) Ancora oggi quest’opificio, dotato di un moderno impianto e sotto la solerte guida dei cugini Vincenzo e Gaetano, soddisfa pienamente le esigenze della popolazione locale. La sua attività abbraccia anche altri centri. I S T R U Z I 0 N I PER LA CONTRIBUZIONE DEL REGIO DAZIO SULLA MACINAZIONE DEI FRUMENTI, ORZI, E GRANONI, FORMATE IN ADEMPIMENTO DELL'’ ARTICOLO 12 DEL REAL DECRETO DE’ 17 DICEMBRE l838. Articolo I. Essendosi Sua Maestà, degnata colla sua real clemenza di far grazia alla Sicilia, minorando dal primo di gennaio 1839 il dazio sulla macinazione dei frumenti, orzi e granoni da tarì. 13 e 12 a tarì nove e grana dodici pari a grana novantasei napolitane per ogni salma legale; i contribuenti pagheranno generalmente il detto dazio nella proporzione di grana dodici, ossieno baiocchi sei per ogni tumolo invece delle grana diciassette, che han pagato sinora. Articolo II. Nella minorazione del dazio di cui è parola nell’articolo precedente, non van comprese le città di Palermo, Messina, Catania e Caltagirone, essendosi Sua Maestà riserbata di provvedere altrimenti al miglioramento di loro amministrazione. Articolo III. La prelodata Maestà Sua mirando sempre alla prosperità di questi suoi amatissimi sudditi, si è degnata inoltre abolire il sistema di esazione inteso sotto nome di consumo rurale. Quindi abolite sono le istruzioni di Piazza, e tutti quegli altri metodi particolari, che si sono chiamati sinora patrie costumanze, salvo ciò, sarà detto nell’ articolo 21. Articolo IV. Il dazio sul macino sarà generalmente pagato da tutti i consumatori, cosi de’ luoghi abitati, come delle campagne, al momento in cui vorranno portare a’ mulini i frumenti, gli orzi, o i granoni. Articolo V. In ogni comune vi sarà all’uopo, come al presente è, una collettoria destinata a ricevere i prodotti del dazio, ed a rilasciare le corrispondenti bollette, ossieno polizze di sgabello. Articolo VI. Sarà tenuto in ciascuna collettoria un registro a matrice con triplici bollette, nelle quali si descriveranno: 1. Il numero progressivo, e la data corrente; 2. I nomi, e cognomi de’ contribuenti; 3. La quantità del grano, orzo, o granone da macinarsi, e il dazio corrispondente; 4. In fine il termine, per cui è valitura la bolletta. Articolo VII. La durata della bolletta sarà,, secondo l’attual sistema, di giorni due liberi, oltre quello della data. Verrà elargato questo termine, ove circostanze particolari consiglino una eccezione, la quale potrà ordinarsi dal direttore generale dei dazi indiretti, dopoché avrà inteso l'intendente della provincia. Scorso il termine suindicato, ogni bolletta non avrà più vigore, e s'intenderà, come non fatta, né rilasciata. Articolo VIII. Finché non saranno sulla uniformità eseguiti i registri delle triplici bollette, continueranno ad aver vigore le cosi dette polizze di sgabello nel modo, e nella forma, che al presente sono. Articolo IX. Delle triplici bollette una resterà a matrice, e le altre due unite insieme saranno consegnate al contribuente, o conduttore. Articolo X. Nessuno potrà entrare con frumento, orzo, o granone ne’ mulini, se pria non si provvede della corrispondente bolletta di pagamento, e non mai il genere potrà essere in quantità maggiore di quella dichiarata. in essa. Quindi il conduttore giunto appena al mulino dovrà consegnare al mugnaio tanto il genere, quanto la doppia bolletta, la quale secondo il consueto, verrà legata al sacco. Articolo XI. Il mugnaio al momento, in cui avrà luogo la, macinazione, distaccherà dal sacco la bolletta, e la collocherà in un sito esposto alla, vigilanza de’ custodi del dazio. Allorché poi il grano è stato ridotto in farina, e rimesso nel sacco, dovrà egli separare le gemelle della bolletta, ed unendone una al sacco della farina, conserverà l’altra in modo da poterne rendere ragione ad ogni richiesta. Articolo XII. L'entrata del grano, e l’uscita delle farine da’ mulini non è permessa, secondo il sistema in vigore, né prima di spuntare il sole, né dopo le ore ventiquattro. Articolo XIII. Quantevolte fosse in uso di pagarsi la molenda ai mugnai in frumento, questo, appena entrato nel mulino, dovrà secondo le disposizioni in vigore riporsi in un granaio, o in cassa a due chiavi, delle quali una resterà in potere del mugnaio, e l’altra presso il fittajuolo del dazio, o di lui persona incaricata, ovvero presso l’agente dell'amministrazione, nel caso in cui il dazio non fosse arrendato. Articolo XIV. Il mugnaio, che trasgredirà l’osservanza degli articoli anzidetti, sarà soggetto alle penali, giusta i bandi che sono stati in vigore. Articolo XV. In caso, che il mugnaio fossa povero, o inabile a soddisfare prontamente la multa, si metterà, il sequestro al diritto di molenda, che risponderà in tutti i casi per le multe dovute dal mugnaio. Articolo XVI. Il proprietario, o conduttore nel riportare, sia dentro l’abitato del comune, sia nelle campagne del territorio, il grano già macinato, dovrà gelosamente custodire la bolletta; e ad ogni incontro delle persone legittimamente incaricate, dovrà, richiesto, esibirla. Articolo XVII. Ove in questo trasporto la bolletta non si esibisse, o la quantità della farina fosse maggiore di quella segnata nella bolletta, vi sarà luogo a contravvenzione punibile, secondo le disposizioni in vigore. Articolo XVIII. Il dazio sulla macinazione avendo in ogni comune un’amministrazione distinta e separata, sia nell’interesse dei rispettivi gabellieri, sia in quello della tesoreria generale, vi sarà pure una vigilanza separata. Quindi se accadesse di doversi il grano macinare in territorio diverso da quello del comune, ove deve consumarsi, ed ove ha già pagato il dazio, in tal caso il conduttore pria di giungere al mulino avrà l’obbligo di recarsi alla, collettoria del comune, nel di cui territorio deve passare, affinché il collettore apponga il visto, sulla bolletta di pagamento. Il conduttore non sarà per tal modo soggetto a veruna molestia nel territorio, pel quale dovrà egli passare. Il collettore si presterà senza il menomo ritardo alla esecuzione del citato suo dovere, non permettendosi di esigere qualsiasi minima retribuzione, e in ogni caso di trasgressione sarà considerato, come concussionario, e punito a norma dell’articolo 196 delle leggi penali. Articolo XIX Ove mai la collettoria, che deve apporre il visto, fosse collocata in luogo molto distante dalla strada di passaggio per andare al mulino, allora sarà presa in considerazione questa particolare circostanza, e il direttore generale, dopoché avrà, intesi gl'intendenti, provvederà o ad un cambiamento di sito della collettoria, o allo stabilimento di una delegazione di essa per comodo di coloro, che sono obbligati a farsi vistare le bollette. Articolo XX. Nella imposizione del dazio sul macino essendo consacrato il principio, che si paghi in quel comune, nel di cui territorio si consuma la farina, il pane, la, pasta lavorata, e il biscotto, ne avviene, che ogni qualvolta tali generi vengano da un territorio ad un altro trasportati per la consumazione, devesi il dazio corrispondere alla collettoria del comune, ove il genere si vuol consumare; né potrà, allegarsi dal conduttore di essere stato il dazio soddisfatto in altro comune nel tempo della macinazione del grano. Accadendo questo caso, il conduttore avrà cura di munirsi della bolletta di pagamento dalla collettoria del comune, in cui dovrà consumare. Articolo XXI. Le disposizioni contenute negli articoli precedenti avranno effetto da’ nuovi appalti in poi, per que’ comuni, ove trovandosi affittata la percezione del dazio, la durata dell'appalto non avrà termine col corrente dicembre; salvochè riuscisse al direttore generale di far consentire gli arrendieri alle modificazioni corrispondenti de’ rispettivi contratti, dovendosi intanto osservare per essi le convenzioni rispettivamente stabilite. Articolo XXII. In quei comuni, dove particolari modi di precauzione sono presentemente in legittima osservanza, i quali non si oppongano alle prescrizioni ottenute nel real decreto del 17 dicembre di quest’anno, saranno tali modi conservati, finchè non sia diversamente disposto. Articolo XXIII. Le contravvenzioni saranno trattate, e decise, secondo i metodi che sono in vigore, e i trasgressori puniti a mente dei bandi che han tenuto luogo di legge sulla materia. Articolo XXIV. I custodi del macino saranno presentati da’ rispettivi gabellieri a’ direttori provinciali competenti per questo ramo di finanza, ed essi secondo gli ordini del direttore generale, rilasceranno le patenti a coloro che dietro le opportune perquisizioni crederanno degni di appartenere a questa classe di forza pubblica. I custodi porteranno nel collare la insegna dell’amministrazione nel modo stesso, che sinora han praticato. Articolo XXV. Restano pienamente confermate le disposizioni tutte, che riguardano i mulini, e i doveri dei mugnai. In conseguenza di ciò saranno osservate le regole concepite ne’ seguenti paragrafi. 1. I mulini ad acqua non possono essere attaccati ad altri edifizi, o case di abitazione. 2. Debbono avere unica porta, e le finestre essere custodite con grate di ferro. 3. Debbono essere soggetti alle visite, ed ispezioni delle persone legittimamente incaricate della percezione del regio Dazio sul macino. 4. Le stanze interne aggregate a’ mulini si considerano, come continuazione de’ mulini stessi, talmente che non vi sia bisogno dell'intervento dell’ufficiale di polizia giudiziaria per la esecuzione delle visite, e delle ispezioni. Articolo XXVI. Attesa l’abolizione de’ metodi del consumo rurale, rendendosi essenzialmente necessaria la stretta vigilanza su’ centimoli, è indispensabile che quegli sparsi nelle campagne sieno ridotti in luoghi sicuri, e di facile custodia. Quindi infra un mese gli anzidetti centimoli dovranno essere riuniti in uno, o più luoghi da designarsi provvisoriamente dagli intendenti, e da approvarsi diffinitivamente dal direttore generale dei dazi indiretti. Tali recinti saranno considerati, come mulini ad acqua, e staranno soggetti a tutte le regole, che per essi sono in vigore. Articolo XXVII. Per quei comuni, in cui giusta l’articolo 7 del real decreto del 17 dicembre 1838 dovranno queste istruzioni avere effetto dopo il termine della durata degli attuali appalti, la disposizione dell’articolo precedente sarà eseguita alla fine dei medesimi, non lasciando intanto il direttore generale di passare i suoi uffici agli intendenti per occuparsi del progetto della recintazione de’ centimoli. Articolo XXVIII. Gl’intendenti medesimi dietro gli uffici del direttore generale si occuperanno pure della recintazione di tutti i centimoli di que’ comuni, ne’ quali tali macchine esistono nelle case de’ privati, affine di riunirli in un locale circoscritto, ed eliminarsi quelle frodi, che attualmente si commettono in grave danno della percezione. Si confermano intanto per essi i mezzi di custodia attualmente in osservanza. I progetti di recintazione de’ centimoli esistenti dentro i comuni saranno rimessi al direttore generale, perché ove il medesimo li riconosca conformi a’ principi generali, possa rassegnarli per la sovrana approvazione. Articolo XXIX. Le presenti istruzioni potranno essere variate, ed elargate secondo che l’esperienza mostrerà utile e necessario. Palermo 20 dicembre l838. Il Direttore Generale de’ Dazi indiretti. DUCA DI SERRADIFALCO _____________________________________________________________ Stamperia di Bernardo Urzì. – Strada S. Anna num. 3l.
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